La competizione tra comuni, spinta, a volte, ad una vera e propria contrapposizione pregiudiziale è tipica di ogni regione d’Italia e si alimenta delle vicende storiche o delle loro interpretazioni.
Ma così è la storia. Il regime non poteva permettersi di attribuire potere politico e amministrativo a una città il cui Vescovo, Mario Sturzo, era l’unico prelato dichiaratamente antifascista, oggetto, in particolare in quell’anno, di delazioni, attacchi, rapporti prefettizi che ne mettevano in evidenza la pericolosità.
Ma tutto questo è storia e come tale va trattata. Farne uno strumento di rivendicazione politica è tardivo, forse politicamente infantile.
D’altra parte mi pare che non si registri alcuna presa di posizione che cavalchi l’antica contrapposizione tra le élite locali: non tra gli amministratori e i politici, non tra i protagonisti dell’economia, non tra gli esponenti della cultura.
Si è solo dato voce alla vulgata entiennese che pure alligna tra i piazzesi e antipiazzese che permane tra gli abitanti del capoluogo.
La verità è che l’ente provincia è superato così come lo abbiamo conosciuto nei 64 anni della Repubblica. In questo lungo lasso di tempo alcune delle città più grandi in Italia e in Sicilia si sono evolute diventando il centro di aree metropolitane ben più vaste, che funzionano come un unico sistema insediativo che compete sui diversi campi di gioco regionali, nazionali e internazionali, che attrae funzioni pregiate, risorse, persone. Da Acireale a Belpasso percorrendo tutta la pedemontana etnea orientale è la Grande Catania, per esempio, che ha una marcia in più rispetto al resto degli insediamenti della Sicilia orientale: una trentina di comuni riuniti in un’area metropolitana mal definita nel 1995 e mai attivata.
Eppure, proprio a causa della forza che hanno le aree metropolitane, le piccole città devono trovare un modo per cambattere insieme la loro battaglia per la sopravvivenza e per lo sviluppo. Una battaglia che non può che passare attraverso la creazione di “reti di città” che condividono uno scenario comune di possibile sviluppo, un modello, un percorso. Per questo non serve istituire nuove province: è una posizione antistorica. Per questo, quando un anno e mezzo fa il comitato per Gela provincia mi volle incontrare, ho ritenuto di non aderire né a titolo perosnale, né, tantomeno, come Comune (dal 1993, quando si ipotizzò la Provincia del Golfo alla quale lavorai insieme ad altri, tutto è cambiato). A questo potrebbero servire i liberi consorzi di comuni previsti dalla Statuto regionale in cui li volle inserire Luigi Sturzo.
E se così fosse, probabilmente si disarticolerebbero le attuali aggregazioni amministrative, in parte definite a tavolino dai poteri dell’epoca in cui furono costituite.
Ma in tutti i casi credo che il destino delle città della Sicilia centro meridionale è quello di lavorare insieme, unite, ruote di uno stesso mezzo, piedi di uno stesso tavolo: Piazza, Enna, Caltagirone, Aidone, perfino Gela.
Piccole città che nella capacità di stare unite, cone le loro differenze e la capacità di integrarsi senza combattersi, hanno l’unica possibilità di contrastare il potere di attrazione delle grandi aree metropolitane.
Per questo credo che la riflessione forzatamente generata dalla trovata tremontiana possa farci fare un passo in avanti. Occorre con forza respingere i contenuti del decreto che abolisce 38 province su 110, ma è opportuno che si dia finalmente attuazione sostanziale non formale allo Statuto, lasciandoci dietro le spalle la presa in giro della legge 9/86 che fa coincidere le province regionali con i liberi consorzi e costruendo “dal basso” queste aggregazioni.
Fausto Carmelo Nigrelli
Sindaco