domenica 14 ottobre 2012

Spose bambine. 60 milioni nel mondo.

Una fotografa racconta le spose bambine
«Ho fatto di tutto per dare voce a vite d'inferno»
I racconti raccolti da Stephanie Sinclair, fotografa premio Pulitzer, le cui immagini sono esposte all'Onu

«Avevo sei anni. Cominciarono a dipingermi le mani e non sapevo perché. Su, mi disse la mamma, andiamo. Dove mi portate? Stavano per sposarmi. Poi lui voleva fare sesso con me. Cercai di scappare. Dove vuoi andare mi diceva prendendomi in giro. Mi mise una mano sulla bocca e mi usò». Oggi Tahani, la bambina in copertina vestita di rosa, di anni ne ha dieci. Racconta l’esordio delle sue mille e una notte nel documentario che Stephanie Sinclair ha realizzato a compimento del suo lavoro fotografico sulle spose bambine. Ma ad Hajjah, tra le montagne dello Yemen, per questa deliziosa Sherazade in miniatura non ci sono favole o incantesimi a disposizione. Sinclair ha speso nove anni della sua vita per indagare in cinque Paesi, Afghanistan, Nepal, India, Yemen ed Etiopia, il fenomeno delle ragazzine costrette a unirsi con uomini che non conoscono. A New York, presso le Nazioni Unite, dall’11 di ottobre sarà esposto il lavoro completo in occasione della prima Giornata mondiale delle bambine. Americana, nata nel 1973, una laurea in giornalismo e tanti primi premi tra cui un Pulitzer per un lavoro collettivo, la fotografa intraprende l’avventura che la travolge per una decade scevra dall’intento di redarguire le società dove la tradizione promuove e assolve comportamenti altrove inaccettabili. Il rispetto è un ingrediente del suo stile.

Quando si reca in Indonesia dove l’infibulazione avviene in ambienti apparentemente rassicuranti, o quando negli Stati Uniti si intrufola nel clan dei Mormoni nello Utah dove Joe Jessop vanta 5 mogli, 46 figli e 239 nipoti, ha tanto accesso e miete tanta fiducia perché non giudica. Studia, si confronta con l’interesse di un antropologo, comunica le sue intenzioni, non ruba niente. I suoi scatti sono sempre autorizzati. «In ogni società ci sono cose positive e negative. Molte delle usanze che scandalizzano noi occidentali scaturiscono dall’estrema povertà. Nel Rajasthan, ho assistito al matrimonio di tre sorelle con tre fratelli. La più piccola, Rajni Bhamwari, aveva cinque anni. La cerimonia è avvenuta di notte perché in India i matrimoni tra minori sono proibiti. Io ero lì anche quando hanno svegliato la bambina e l’hanno messa sulle spalle dello zio per portarla via. Queste cose avvengono perché le famiglie nelle zone rurali vogliono rafforzare i legami per proteggersi. È probabile che i parenti di Rajni pensino di fare il suo bene, affidandola a una famiglia che include anche le sue sorelle maggiori che si prenderanno cura di lei. Le bambine piccole come Rajni rimangono con la famiglia d’origine ancora qualche anno. Spesso sia le ragazze che i genitori vorrebbero ritardare i matrimoni. Ma mancano le alternative. In India, come in Nepal, questi matrimoni avvengono tra coetanei per cui è un fenomeno che riguarda anche i ragazzini che hanno solo qualche anno di più». Nel corso della sua inchiesta individua anche i molti casi in cui la consuetudine implacabile supera il confine per diventare un sopruso.

L’ossessione per il tema nasce in Afghanistan, nel 2003, per caso. «All’inizio volevo studiare il fenomeno dell’autoimmolazione. Man mano che procedevo nelle mie ricerche, mi angosciava il dramma che induceva queste ragazze a infliggersi tanto dolore nella speranza di morire. Trascorrono la maggior parte della giornata ai fornelli, che funzionano con il kerosene. Non ci sono pillole a cui chiedere aiuto per lenire ferite interiori così laceranti. Si affidano al fuoco che a volte delude le loro aspettative. Invece della morte provoca ustioni gravissime che non possono essere curate in un Paese dove non c’è niente. Marzia Bazmohamed, 15 anni, si è data fuoco solo perché aveva rotto il televisore del marito. Ho sentito la necessità insopprimibile di andare alle origini di tanto strazio». Un secondo episodio le apre gli occhi. «Avevo chiesto a Malalai Kakar, una donna molto speciale ufficiale di polizia di Kandahar, di avvisarmi qualora ci fosse un caso di violenza sulle donne. Quando mi chiamò, mi precipitai. Vidi una donna che correva con il burqua insanguinato. Venne portata al pronto soccorso dove le tolsero il velo. La bambina era stata pugnalata dal marito perché voleva andare dalla sua mamma. Fu il marito, che era presente, a chiedermi di fotografarla per documentare la sua colpa. Cosa succederà al marito? chiesi a Malalai. Niente, rispose. Qui gli uomini sono dei re. Malalai è stata poi uccisa dai Talebani nel 2008». Atterrita dall’idea che tanta ingiustizia resti impunita e soprattutto che le ragazze abbiano poche vie d’uscita decide di essere la loro voce. «Incontrai Meigon Amoni a Herat che mi raccontò di essere stata venduta dal padre per una dose di eroina quando aveva 11 anni a un uomo di 60. Mi descrisse nel dettaglio lo stupro del suo acquirente, la fuga in un centro dove l’avevano accolta. Ho incontrato a Damarda, Afghanistan, Ghulam Haider, 11 anni, costretta a sposare un uomo di 40. Il suo dramma collaterale, mi raccontò, era non poter diventare un’insegnante di Dari, la sua lingua che le piace tanto.

Al momento del fidanzamento, le bambine come la stessa Tahani che adorava andare a lezione, sono portate via dalla scuola, allontanate dai loro amici. Ho cercato di trasmettere l’idea che limitare l’educazione delle ragazze, e quindi le loro opportunità economiche e sociali, si traduce anche in un ulteriore impoverimento della società, in un rinvio della prosperità. Persino all’interno dei nuclei più retrogradi c’è sempre chi si rende conto che le tradizioni devono essere modificate. Sono queste persone che mi hanno aiutato nel corso degli anni ad accedere alle situazioni intime che ho fotografato». In Afghanistan, i matrimoni sono legali a partire dai 16 anni, ma secondo il Ministero per le donne afghano e alcune Ong circa il 57% delle bambine sono destinate all’unione con un uomo prima dei 16 anni. «Un giorno cercai di andare a fondo e chiesi se i mariti sono autorizzati a fare sesso con le bambine che non hanno ancora raggiunto la pubertà. Tutti mi dissero di no, che devono aspettare. Poi un gruppo di donne mi tirò per un braccio. Ehi, mi dissero sotto voce, una volta che le ragazzine sono consegnate a un uomo, questi ne fa quello che vuole». Sono più di 50 i Paesi dove vige questa pratica. Il fenomeno è trasversale e come dimostra Sinclair, può affermarsi tra musulmani, hindu o cristiani. In Occidente i matrimoni con le minori sono meno del 5%, nei Paesi in via di sviluppo più di un terzo. Secondo l’Unicef nel mondo le ragazze sposate prima dei 18 anni aumenteranno al ritmo di 25mila al giorno.

Il tasso di mortalità tra le ragazzine che partoriscono è il doppio delle donne che hanno raggiunto i 20 anni. Spesso non sanno cosa sia una gravidanza, ignorano cosa succeda al loro corpo. Solo al momento del parto un’improvvisata levatrice rivela l’arcano. «In Etiopia ho visto prelevare Leyualem Mucha, una ragazza di 14 anni a cui hanno coperto il volto mentre la portavano su un mulo dallo sposo, così, mi hanno spiegato gli artefici del gesto, in caso di fuga non troverebbe la strada di casa. Ma ho anche assistito quattro anni fa, nella provincia rurale di Gondar, al matrimonio tra un prete ortodosso di 23 anni e una ragazza di 11. Il villaggio esige che la sposa del sacerdote sia vergine. Sono tornata quest’anno a trovarli. Destaye Amare adesso ha 15 anni e un bambino ma è contenta, mi ha detto, perché lui è gentile». Le fotografie di Stephanie Sinclair sono potenti. Raccontano tante cose e spesso spaventano. Si accostano con indulgenza alle tradizioni, ma non le giustificano. Denunciano senza arroganza. Aiutano chi all’interno di società retrograde e culturalmente complicate si batte per un presente migliore. Come la piccola Nojoud Ali, ritratta all’età di 10 anni mentre gioca con il suo velo rosso e i capelli sciolti. Ha scritto la sua storia in un libro, con l’aiuto di un’amica di Stephanie Sinclair, e da grande vuole diventare un avvocato per difendere le bambine con il destino imprigionato. Gioca. Ancora incredula di aver trascinato nel tribunale di Sana’a il marito trentenne che la picchiava e abusava di lei. Contenta di aver vinto la battaglia della sua vita e inconsapevole di regalare una speranza anche a Tahani.

Chiara Mariani

Chi sono

Qualcuno, di cui non ho molta stima, mi chiama "Architetto di Dio". La cosa, però, mi piace. Dicono che sono un architetto eclettico ed un pò anomalo. Il mio lavoro è a metà tra i restauri ed il turismo. Sono cooperatore salesiano e amo Don Bosco. Sono sposato con Cinzia che amo. Abbiamo tre figli, Gabriele Samuele e Gaia. Se vuoi scrivermi ecco la mail architettodidio@gmail.com


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"Il senso di inquietudine mi insegue sempre e quando mi pare di aver colto una certezza ricado nell'assoluto smarrimento. Mi chiedo: sono al posto giusto, al momento giusto? Boh! che casino è la VITA e quanto doloroso è questo cammino di scoperta dell'Assoluto che c'è in noi!"

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