Latouche è una celebrità: rispondendo alle nostre domande ci dice che «da tre settimane rilascio almeno un’intervista al giorno». Professore emerito di Scienze economiche all’Università di Paris-Sud, autore estremamente prolifico che dal 2007 pubblica non meno di due libri all’anno, Latouche è il principale teorico della "decrescita felice" associata all’"abbondanza frugale". Di cui gli chiediamo di offrirci una versione "divulgativa".
Professor Latouche, se avesse a disposizione il pappagallo di Fischer, di questi tempi cosa gli chiederebbe di ripetere sistematicamente a ogni possibile interrogazione?
«Bella domanda! Una risposta però non c’è, perché la legge del mercato effettivamente ha una risposta a tutto, mentre le cose stanno in modo completamente diverso nell’universo antieconomico della decrescita. Spiegare che cos’è la decrescita e rispondere alle obiezioni che solleva, supera le capacità degli uccelli parlanti».
Proviamoci…
«La decrescita è una "funzione performativa", oppure una "utopia concreta". Detto in termini più semplici, è un progetto di costruzione di una società di abbondanza frugale per uscire dalle aporie della società dei consumi. Mi rendo conto che il progetto di cui parlo è una sfida provocatoria, addirittura blasfema nei confronti dei dogmi economici a cui siamo abituati. Ma come gli alberi non posso crescere fino al cielo, così non esiste - e non può esistere - la crescita indefinita. In modo particolare per l’Occidente da qui in avanti».
Altrove sì?
«Non voglio dire questo ma un’altra cosa. E’ naturale che l’Africa abbia margini di crescita, e forse non è il caso di stupirsi (come fanno alcuni) dei tassi di crescita che in anni recenti vengono espressi da alcuni paesi di questo continente, che di fatto non è mai cresciuto e comincia solo ora a farlo. E mutatis mutandis la stessa cosa si potrebbe dire dei cosiddetti paesi Bric: Brasile, Russia, India e Cina. Ma l’Occidente sono secoli che cresce: è chiaro che vi sarà un limite, a cui - a mio avviso - ci siamo avvicinati in questi anni. E’ il nostro modello culturale - per inciso: è sempre la cultura a reggere l’economia, non il contrario - ad essere entrato in crisi. E’ la "società dei consumi" così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi che non funziona più».
D’accordo. Mi permetta allora di farle la domanda dell’uomo della strada (e forse non soltanto): cosa sta succedendo?
«Come dicevo prima, gli alberi non arrivano in cielo: crescono fino a un certo punto e poi si fermano. Ora ci troviamo a questo punto, con un’aggravante: veniamo da trent’anni di crescita illusoria. Nel secondo dopoguerra abbiamo avuto trent’anni di crescita reale - quelli che in Francia chiamiamo i "trenta gloriosi" (1945-1975) - a cui sono seguiti trent’anni di crescita virtuale: quella dell’espansione gigantesca del credito e dei prodotti finanziari. Secondo gli addetti ai lavori, il denaro virtuale in circolazione (dotato quindi di effetti "reali") sarebbe pari 600mila miliardi di dollari, secondo i più prudenti, addirittura a un milione di miliardi di dollari, secondo altre stime. Queste cifre superano il pil mondiale di 15-20 volte! E’ un enorme bolla speculativa (immobiliare oltre che finanziaria) che non poteva non scoppiare, con gli effetti che abbiamo sotto gli occhi».
Il futuro dell’euro è segnato a suo avviso?
«Temo di sì, perché l’unico attore che potrebbe veramente cambiare le cose è la Cina: se domani i fondi sovrani cinesi dovessero decidere di comprare debito pubblico europeo, invece che americano, noi avremmo risolto i nostri problemi. Ma con ogni probabilità non lo faranno perché gli americano hanno detto chiaramente che il disimpegno dal loro debito sarebbe considerato un atto politicamente ostile quando (o quasi) un attacco militare. Quindi ad oggi non vedo altre vie d’uscita. Dovremo imparare a vivere nella decrescita, che non significa necessariamente recessione. È una "prosperità senza crescita"».
È un’idea diversa di società?
«Direi di sì. Come diceva l’antropologo Marcel Mauss, il collante del tessuto sociale sta nello spirito del dono, non certo nell’utilitarismo. E questo apre la possibilità che si guardi all’altro - al "prossimo", come dice l’etica cristiana - con occhi diversi. Sotto questo aspetto la crisi è una grande opportunità».
Professor Latouche, se avesse a disposizione il pappagallo di Fischer, di questi tempi cosa gli chiederebbe di ripetere sistematicamente a ogni possibile interrogazione?
«Bella domanda! Una risposta però non c’è, perché la legge del mercato effettivamente ha una risposta a tutto, mentre le cose stanno in modo completamente diverso nell’universo antieconomico della decrescita. Spiegare che cos’è la decrescita e rispondere alle obiezioni che solleva, supera le capacità degli uccelli parlanti».
Proviamoci…
«La decrescita è una "funzione performativa", oppure una "utopia concreta". Detto in termini più semplici, è un progetto di costruzione di una società di abbondanza frugale per uscire dalle aporie della società dei consumi. Mi rendo conto che il progetto di cui parlo è una sfida provocatoria, addirittura blasfema nei confronti dei dogmi economici a cui siamo abituati. Ma come gli alberi non posso crescere fino al cielo, così non esiste - e non può esistere - la crescita indefinita. In modo particolare per l’Occidente da qui in avanti».
Altrove sì?
«Non voglio dire questo ma un’altra cosa. E’ naturale che l’Africa abbia margini di crescita, e forse non è il caso di stupirsi (come fanno alcuni) dei tassi di crescita che in anni recenti vengono espressi da alcuni paesi di questo continente, che di fatto non è mai cresciuto e comincia solo ora a farlo. E mutatis mutandis la stessa cosa si potrebbe dire dei cosiddetti paesi Bric: Brasile, Russia, India e Cina. Ma l’Occidente sono secoli che cresce: è chiaro che vi sarà un limite, a cui - a mio avviso - ci siamo avvicinati in questi anni. E’ il nostro modello culturale - per inciso: è sempre la cultura a reggere l’economia, non il contrario - ad essere entrato in crisi. E’ la "società dei consumi" così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi che non funziona più».
D’accordo. Mi permetta allora di farle la domanda dell’uomo della strada (e forse non soltanto): cosa sta succedendo?
«Come dicevo prima, gli alberi non arrivano in cielo: crescono fino a un certo punto e poi si fermano. Ora ci troviamo a questo punto, con un’aggravante: veniamo da trent’anni di crescita illusoria. Nel secondo dopoguerra abbiamo avuto trent’anni di crescita reale - quelli che in Francia chiamiamo i "trenta gloriosi" (1945-1975) - a cui sono seguiti trent’anni di crescita virtuale: quella dell’espansione gigantesca del credito e dei prodotti finanziari. Secondo gli addetti ai lavori, il denaro virtuale in circolazione (dotato quindi di effetti "reali") sarebbe pari 600mila miliardi di dollari, secondo i più prudenti, addirittura a un milione di miliardi di dollari, secondo altre stime. Queste cifre superano il pil mondiale di 15-20 volte! E’ un enorme bolla speculativa (immobiliare oltre che finanziaria) che non poteva non scoppiare, con gli effetti che abbiamo sotto gli occhi».
Il futuro dell’euro è segnato a suo avviso?
«Temo di sì, perché l’unico attore che potrebbe veramente cambiare le cose è la Cina: se domani i fondi sovrani cinesi dovessero decidere di comprare debito pubblico europeo, invece che americano, noi avremmo risolto i nostri problemi. Ma con ogni probabilità non lo faranno perché gli americano hanno detto chiaramente che il disimpegno dal loro debito sarebbe considerato un atto politicamente ostile quando (o quasi) un attacco militare. Quindi ad oggi non vedo altre vie d’uscita. Dovremo imparare a vivere nella decrescita, che non significa necessariamente recessione. È una "prosperità senza crescita"».
È un’idea diversa di società?
«Direi di sì. Come diceva l’antropologo Marcel Mauss, il collante del tessuto sociale sta nello spirito del dono, non certo nell’utilitarismo. E questo apre la possibilità che si guardi all’altro - al "prossimo", come dice l’etica cristiana - con occhi diversi. Sotto questo aspetto la crisi è una grande opportunità».
Davide Gianluca Bianchi