sabato 26 novembre 2011

Akeem il nigeriano. Una vita in fuga. Prima il Sahara, poi il Mediterraneo. Adesso a Piazza in cerca di un futuro

Mi chiamo Hakeem Afolabi Sanusi e sono nato nel 1982 nel Lagos. Mio padre è un  Ingegnere,  fervente musulmano, Ho due fratelli e tre sorelle minori. Vivevamo serenamente in famiglia e c’era molto affetto tra noi. Nel 1999 mi sono laureato allo Yaba College of Technology. Nello stesso anno partii per il National Youth Service Corps, l’anno di volontariato militare al servizio dello sviluppo della nazione che solitamente viene richiesto dallo Stato ai laureati, pur non essendo obbligatorio.
Ho incontrato mia moglie, Khirat al College, nel 1996.
La nostra relazione iniziò felicemente apprezzata da entrambe le famiglie, ma, poco tempo dopo, la sua famiglia si convertì al Cristianesimo e,  non appena la mia famiglia venne a sapere che proprio la mia fidanzata proveniva da una famiglia di religione cristiana, le cose iniziarono ad andar male.

Fui costretto a lasciare la mia casa, la mia famiglia e a fuggire lontano con lei.
Non molto tempo dopo, mentre mia moglie era incinta della nostra prima figlia, seppi che la nostra famiglia ci stava cercando.
Lasciammo il Lagos per andare ad Ibadan, dove Khirat diede alla luce (era il 2000). Il giorno del battesimo della bambina, un nostro amico ci avvisò che la mia famiglia aveva scoperto dov’ero così lasciammo  immediatamente Ibadan, dopo aver preso poche delle nostre cose.
Partimmo la notte stessa per il Kano, dove nessuno sapeva chi fossi. . Fummo ospitati per lungo tempo da una parrocchia del luogo, la Reedem Christian Church of God.
Iniziai a lavorare come operatore telefonico in un mini store. Nel Luglio del 2000 nel Kano vi furono diversi scontri tra Cristiani e Musulmani, diversi Cristiani vennero uccisi da uomini della tribù degli Hausa, di religione integralista islamica.




Da lì decidemmo di fuggire verso la Libia. Era fuori questione il ritornare nel nostro stato di origine: avremmo avuto anche lì gli stessi problemi.
Fu un viaggio terrificante. Attraversammo il Sahara con la nostra bambina di tre mesi, diciotto giorni nel deserto, prima di arrivare in Libia.
Non conoscevamo nessuno lì, cercammo una parrocchia a cui chiedere asilo.
Trovammo un posto dove dormire grazie alla pietà di  alcune persone. Iniziai a cercare lavoro e fu difficile a causa della lingua, che non parlavo per niente.
Iniziai lavando auto per strada, poi ottenni un lavoro come tecnico in una piccola società di computer, poi un posto da supervisore in una società che si occupa di spedizioni, dove ben presto diventai Operation Manager. Nel frattempo, nel 2004, nacque il mio secondo figlio.
Nel 2009 iniziai a lavorare per un’altra compagnia come ingegnere elettronico.
Intanto  scoppiò la guerra in Libia.. Il 7 Luglio 2011 fui chiamato per un lavoro di manutenzione a casa di un nostro cliente.
Mi trovavo lì quando sentimmo una forte esplosione: per le strade c’era il caos più assoluto, gente che correva su e giù.
Non sapevo cosa fare, per lo shock e la confusione; provai a chiamare mia moglie più volte ma le linee telefoniche non funzionavano.
Chiesi al cliente, un uomo del posto, di portarmi a casa mia, per andare a vedere se mia moglie e i miei figli stavano bene. Lungo la strada incontrammo diversi soldati dell’esercito, ci fermarono ad un posto di blocco per perquisire l’auto da cima a fondo. Ci lasciarono andare, ripartimmo, e poco dopo ci fermammo in un angolo nascosto lungo la strada. L’uomo mi disse di nascondermi nel cofano dell’auto, e dato che non avevo altra scelta gli obbedii. Restai lì dentro per tre ore circa. Quando ci fermammo e il conducente aprì  il cofano, mi ritrovai circondato da soldati. Mi ordinarono di gettarmi a terra, faccia in giù, mentre l’uomo discuteva con loro. Ero lontano da loro, non riuscivo a capire cosa stessero dicendo. Poco dopo i soldati mi perquisirono, mi sequestrarono la scheda SIM del cellulare e mi ridiedero il telefono.
Mi portarono sulla spiaggia e mi portarono nella sala macchine di un vecchio peschereccio; rimasi lì per cinque ore, prima che uno dei soldati entrasse per avviare i motori. Capii che altre persone si stavano imbarcando, e poco dopo sentii una raffica di spari che durò alcuni minuti. Quindi, il peschereccio iniziò a muoversi. Non sapevo dove fossimo diretti, ero chiuso lì dentro da solo senza la possibilità di comunicare con l’esterno.
Dopo trenta ore di navigazione, sentii una voce dagli altoparlanti della nave che diceva di spegnere i motori.
Poco dopo arrivò correndo un uomo bianco che controllò i motori e andò via.
Poche ore dopo, tornò indietro, spense il motore e disse che dovevamo scendere tutti dal peschereccio. Scendendo dalla nave, vidi una donna su una barella, la stavano caricando su un’ambulanza.
Mi avvicinai ed era mia moglie. Iniziai a chiedere cosa avesse e dove la stessero portando: era incinta e aveva bisogno di cure.
Cercai i miei figli in giro, ma non li trovai.
Chiesi ad un uomo bianco dove fossi, chi era e come avrei potuto vedere la donna che avevano appena portato via in ambulanza.
Mi rispose che ci trovavamo a Lampedusa, in Italia, che lui era un poliziotto e che avrei potuto rivedere presto mia moglie.
Ci fecero salire su un autobus, dal quale scendemmo pochi minuti dopo, e una volta sceso ricominciai a cercare i miei figli.
Gli Italiani ci accolsero benevolenti. Poco dopo mi riportarono mia moglie: quando la vidi, le corsi incontro e la abbracciai.
Mi chiese come ero arrivato lì, ed io chiesi lo stesso anche a lei, inoltre le domandai dove si trovavano i nostri figli.
Li aveva lasciati in Libia, e mi raccontò che il giorno in cui ero sparito i bambini erano tornati a casa da scuola per il pranzo, e che sua sorella li aveva portati al parco giochi prima che scoppiasse il caos in città. Caddi seduto a terra, le lacrime agli occhi. Uno degli uomini bianchi mi si avvicinò, chiedendomi cosa mi fosse successo. Gli raccontai la mia storia e lui mi portò in un ufficio, e mi diede una carta telefonica per contattare i miei bambini. Riuscii a sentirli e a dire loro di andare immediatamente presso qualsiasi ufficio delle Nazioni Unite.
Dopo tre giorni nel centro di accoglienza di Lampedusa, portarono mia moglie in ospedale per una serie di controlli. Mentre la aspettavo, una persona dello staff mi chiamò nel suo ufficio per dirmi che avrebbero trasferito mia moglie all’ospedale di Palermo.
Aveva bisogno di essere operata urgentemente a causa dello stress a cui era stata sottoposta durante il viaggio per mare.
Dopo nove giorni a Lampedusa fui trasferito a Manduria, dove trascorsi undici giorni prima di essere trasferito a San Biagio, in Sicilia.
Arrivato lì, chiesi di mia moglie, perché lei era il mio unico pensiero.
Mi spiegarono che non avrei potuto sentirla prima di due ore. Alla fine riuscii a parlarle, mi disse che si trovava a Piazza Armerina.
Mi diede il nome e i contatti del signor Agostino Sella, che mi ha aiutato tanto.
Ha fatto del suo meglio per ottenere il mio trasferimento da San Biagio a Piazza Armerina. Al momento viviamo a Piazza Armerina e stiamo aspettando che venga accolta la nostra richiesta di asilo.
Vorrei sfruttare quest’opportunità per ringraziare il mio buon amico Agostino Sella e la sua famiglia per l’aiuto datoci.
Che Dio benedica lui e la sua famiglia.
E vorrei inoltre ringraziare il Governo Italiano.
akeem sanusi

traduzione
di martina barletta
Studente di Lingue e Letterature Straniere UNICT

Chi sono

Qualcuno, di cui non ho molta stima, mi chiama "Architetto di Dio". La cosa, però, mi piace. Dicono che sono un architetto eclettico ed un pò anomalo. Il mio lavoro è a metà tra i restauri ed il turismo. Sono cooperatore salesiano e amo Don Bosco. Sono sposato con Cinzia che amo. Abbiamo tre figli, Gabriele Samuele e Gaia. Se vuoi scrivermi ecco la mail architettodidio@gmail.com


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"Il senso di inquietudine mi insegue sempre e quando mi pare di aver colto una certezza ricado nell'assoluto smarrimento. Mi chiedo: sono al posto giusto, al momento giusto? Boh! che casino è la VITA e quanto doloroso è questo cammino di scoperta dell'Assoluto che c'è in noi!"

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