lunedì 2 luglio 2012

Michele Pennisi: "Vi racconto chi era don Pino Puglisi e perché sarà beato

Uno è stato prete in un quartiere di periferia a Palermo, Brancaccio, ad altissima penetrazione mafiosa, l’altro è vescovo della diocesi più periferica della Sicilia (Piazza Armerina che comprende anche Gela, estremo sud dell’isola), teatro di scontri e domini delle cosche. Il primo, don Pino Puglisi, è stato ucciso dalla mafia nel ’93, e ora sarà proclamato beato perché martire, ammazzato per la sua fede. L’altro, monsignor Michele Pennisi, ne è stato amico in vita, e oggi ne mantiene in vita gli insegnamenti: a tempi.it racconta chi era don Pino.
Che ricordo ha di don Puglisi?
L’ho conosciuto nell’84-’85, quando io dirigevo il seminario di Caltagirone e lui era direttore regionale del centro regionale vocazioni. Diverse volte l’ho incontrato e ogni sabato in quell’anno mi recavo a Palermo, per preparare un convegno, e cenavo con lui. In quel periodo lui non era ancora parroco a Brancaccio, ma insegnava religione e prestava servizio in varie parrocchie. Ricordo una persona molto affabile, con il sorriso sulle labbra, ma anche molto radicale nella sua testimonianza cristiana. Tutto avrei immaginato per lui, meno che una morte violenta, perché era un uomo mite. Erano anni particolarmente difficili per Palermo, c’erano stati numerosi omicidi. Ma don Puglisi non aveva la scorta, non partecipava a convegni antimafia: non era insomma il classico prete antimafia di moda in quegli anni. Non faceva antimafia in senso sociologico ma pastorale.
Cosa intende dire?
Significa che per lui la mafia in qualche modo contrastava con la pastorale della Chiesa, e combatterla per lui significava favorire la missione della Chiesa. La mafia rappresentava una seria minaccia, secondo lui, non solo per la società civile ma anche per la missione della Chiesa perché rischiava di minare all’interno la coscienza etica e la cultura cristiana del popolo siciliana. Il fatto, per esempio, che ci fossero mafiosi che raccogliessero offerte in occasioni delle feste patronali per poi pavoneggiarsi di essere cultori della fede, gli dava molto fastidio. Lui diceva che queste persone non potevano ostentare alcuna fede, perché non ne avevano, visto che si trattava solo di partecipare ad una processione dopo aver raccolto i soldi per comprare mortaretti o pagare la banda, ma del santo non avevano interesse. Poi è arrivato in parrocchia a Brancaccio.
E lì che cosa è accaduto? Come viveva don Puglisi il suo impegno di parroco nel quartiere controllato dai boss Graviano?
Ha capito subito che doveva iniziare dai bambini più che dagli adulti. Il quartiere era molto degradato sia dal punto di vista sociale che urbanistico. Era un quartiere dove la mafia controllava tutto. Per esempio ricordo che c’era una scuola abbandonata, e don Puglisi diverse volte aveva chiesto al Comune il permesso di usarla come centro di educazione. La scuola infatti era usata come centro di spaccio e di raccolta delle armi delle cosche. Ma al comune don Pino si scontrava con la burocrazia, un muro di gomma: «Si faccia i fatti suoi» gli rispondevano. I ragazzi erano usati come manovalanza dalle cosche. Il fatto che lui fosse entrato in contatto con loro per la mafia è stato come se tagliasse l’erba fresca sotto ai piedi della mafia.
Cosa significa che don Pino ha contrastato la mafia, nel concreto?
Lo faceva da prete anzitutto, per esempio con le omelie, dicendo «Abbiamo un padre nostro solo nei cieli», e non padrini a cui obbedire. Toglieva autorevolezza ai capimafia. Avviò un oratorio e i gruppi per le attività estive e successe che i ragazzi, anziché stare per strada a far le “sentinelle”, o a cimentarsi in lotte per essere arruolati, quando incontravano invece questo prete che andava in giro per il quartiere e parlava con tutti, preferivano andar con lui anziché con la mafia. Il quartiere rischiava di non essere più sotto il dominio mafioso. Una delle persone più vicine a Puglisi è stato monsignor Carmelo Guttitta, oggi vescovo di Palermo: lui è stato uno dei “ragazzi di don Pino”. Mi ha raccontato dell’interesse che aveva per ciascuno di loro, di come li aiutava i ragazzi anche nella scoperta della propria fede e vocazione. Lui ad esempio ha deciso di diventare prete proprio per averlo conosciuto.
Poi, la sera del 15 settembre ’93, il giorno del suo cinquataseiesimo compleanno, don Pino è stato ucciso.
Ricordo di aver appreso la notizia la mattina successiva. Stavo facendo colazione, quando alla tv diedero la notizia. Com’è possibile? Continuavo a chiedermi, non riuscivo a capacitarmi.
Qual è stato il percorso che ha portato ieri papa Benedetto XVI a proclamarlo beato?
Il processo di beatificazione è iniziato nel ’99, sei anni dopo la morte. La prima causa si concluse nel 2001, dopo la raccolta delle testimonianze diocesane. La Congregazione per le cause dei santi negli anni seguenti chiese però vari approfondimenti e integrazioni, perché non riteneva che fosse stata sufficientemente provata la morte per causa dell’odio alla fede. Il problema è infatti che il martirio nella chiesa va provato – a prescindere che si parlasse di martire della giustizia come in questo caso – per l’odio alla fede: andava dimostrato che il martirio di don Puglisi è stato l’epilogo di una vita pastorale esemplare ispirato dalla carità, come ha detto lo stesso papa Benedetto XVI nella sua ultima visita a Palermo (ottobre 2010), citando proprio don Puglisi. «Egli aveva un cuore che ardeva di autentica carità pastorale». E poi il Papa aggiungeva: «Il popolo affidatogli ha potuto abbeverarsi alla ricchezza spirtiruale di questo buon pastore. Vi esorto a conservare viva memoria della sua feconda testimonianza sacerdotale imitandone l’eroico esempio». La seconda cosa che andava dimostrata è che l’impegno di don Puglisi per contrastare la mafia derivasse da quello pastorale, in quanto la mafia per la sua struttura e la sua storia, è concepita come una specie di anti chiesa. Il cardinal Pappalardo, vescovo di Palermo negli anni ’90, l’ha definita infatti «L’anti-corpo mistico di Cristo». Il nuovo postulatore della causa di beatificazione di don Puglisi, l’attuale arvicescovo di Catanzaro monsignor Vincenzo Bertolone, di origine siciliana, ha portato avanti la causa dimostrando questi due aspetti. La mafia in effetti ha ucciso don Puglisi perché riteneva la Chiesa un nemico da estirpare.
Cosa resta vivo oggi dell’insegnamento di don Puglisi?
Ho parlato con i parrocchiani e il responsabile del centro “Padre nostro”, nato proprio in quella scuola che don Puglisi voleva con forza venisse riaperta: don Pino non si è fermato finché non è riuscito. Mi ha colpito leggere che quando il killer, Gaspare Spatuzza, andò da lui per ucciderlo, questi lo accolse con un sorriso. «Ti aspettavo». Io non conosco Spatuzza, e non so se il suo sia un pentimento solo giudiziario o morale, ma di certo credo che lui e l’altro killer siano rimasti colpiti davvero. Don Puglisi è stato un modello, proprio di quello che dicevo, cioè di un’antimafia che sia motivata non dalla sociologia, ma da motivazioni evangeliche; e il fatto che questo percorso sia stato suggellato dalla Chiesa con la proclamazione del martirio di don Pino, è importante per tutti noi. La mafia dal punto di vista cristiano va contrastata con il Vangelo, non da una generica difesa della legalità; perché la mafia con i suoi atti manifesta un atteggiamento radicalmente contrario alla fede. È completamente contrario al Vangelo, ad esempio, la strumentalizzazione che fanno i mafiosi dei passi biblici per giustificare la vendetta, il fatto che il padrino sia considerato una sorta di rappresentante di Dio in terra, il fatto che vengano usate simbologie religiose nell’affiliazione. Sono strumentalizzazioni per inculcare la cultura mafiosa in una società dove ancora la religione ha importanza. Della religione i mafiosi prendono solo elementi formali, ma non la coerenza con la vita di ogni giorno: e ciò lo dimostra il disprezzo della vita, o il mettere denaro e potere al primo posto come un idolo al posto di Dio. L’esatto contrario di ciò che insegna ancora oggi a noi don Pino

Chi sono

Qualcuno, di cui non ho molta stima, mi chiama "Architetto di Dio". La cosa, però, mi piace. Dicono che sono un architetto eclettico ed un pò anomalo. Il mio lavoro è a metà tra i restauri ed il turismo. Sono cooperatore salesiano e amo Don Bosco. Sono sposato con Cinzia che amo. Abbiamo tre figli, Gabriele Samuele e Gaia. Se vuoi scrivermi ecco la mail architettodidio@gmail.com


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"Il senso di inquietudine mi insegue sempre e quando mi pare di aver colto una certezza ricado nell'assoluto smarrimento. Mi chiedo: sono al posto giusto, al momento giusto? Boh! che casino è la VITA e quanto doloroso è questo cammino di scoperta dell'Assoluto che c'è in noi!"

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