Il sacrificio di todah era per la spiritualità ebraica
un’offerta che Israele presentava a Dio senza olocausto. Essa serviva a
ravvivare la relazione con lui e a rammentare la testimonianza delle sue
generose elargizioni. È da qui che gli avvenimenti apparivano al popolo
dell’alleanza mirabilia Dei. Israele,
a forza di ringraziare il Signore, sperimentava in maniera vivida la sua
compagnia, mentre i fatti della vita diventavano ricettacolo della sua
sollecitudine. Anch’io, questa sera, desidero presentare tale sacrificio.
La
circostanza dell’ordinazione episcopale, un fatto che ha messo in primo piano
la comunione della Chiesa di Noto con la Chiesa di Piazza Armerina, appartiene
a quel prodigio operato dalla presenza di Dio che non posso non definirlo atto
di misericordia. Constato che questo fatto rientra tra le meraviglie del
Signore. È un’azione d’amore che Dio ha voluto concedermi nella sua
magnanimità, per riprendere con entusiasmo il cammino di conversione. Non è
infatti così scontato che, dopo alcuni anni di sacerdozio, abbia assimilato
compiutamente le esigenze discepolari dell’evangelo. Il Signore, dal cuore
grande, ha permesso quest’ulteriore sprone di conversione nella fase finale
della mia vita, perché avanzi nel cammino dell’umiltà e, imparando a somigliare
a lui, raggiunga quell’unione spirituale che passa attraverso il dono di sé
alle persone che saranno affidate, presbiteri e fedeli laici. Il mio intento,
agognato da sempre, è quello di comporre dentro di me la morphē di Gesù, quella forma di vita che struttura uno stile
peculiare che è ravvisabile soltanto nel Figlio di Dio. Non credo di esigere
troppo, tanto più che questo è pure raccomandato dall’apostolo Paolo: «figlioletti
miei che partorisco di nuovo finché non sia formato in voi Cristo» (Gal 4,19). È il ringraziamento che desidero elevare a Dio
in questa circostanza. Il dono dell’episcopato è una sollecitazione forte
perché si alimenti in me il desiderio della morphē
di Gesù, consapevole che quest’azione di grazia è frutto del suo Spirito,
il cui amore continua ad essere riversato, senza alcun merito, nella mia vita
(cfr. Rm 5,3).
Se
il sacrificio di todah è rivolto
anzitutto alla Santissima Trinità, non può mancare un ricordo particolare per
il Santo Padre. La sua testimonianza dell’evangelo, così intensa ed essenziale,
mi rammenta quello che l’autore della 1Pt postula come principio di vita:
«Cercate di vivere nella discrezione e nella sobrietà per imparare a pregare, e
prima di ogni cosa abbiate in voi stessi un amore sempre in tensione» (1Pt
4,7-8). È quello che desidererei praticare, mirando a privilegiare un
atteggiamento benevolo e accogliente che è la base per un’autentica fraternità.
Certo, occorre formarsi a determinate virtù, e, benché l’età avanzi, non debbo
tralasciare l’attenzione a questa mia umanità che cresce rischiando di non
maturare. Reputo allora l’esercizio della sōphrosýnē
(buon senso, discrezione) – così definiscono i Padri della Chiesa una virtù
importante per migliorare la relazione umana – un aspetto che non può e non
deve mancare nel rapporto con questa sua sposa che il Signore mi affida. A lui
chiedo l’assistenza perché possa accompagnarla «tutta gloriosa, senza macchia
né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,27): un impegno esigente
che richiede sobrietà. Ecco l’altra virtù che desidero far mia, perché il gesto
preceda la parola e la testimonianza aiuti ad assimilare le ammonizioni. La
sobrietà però allude anche ad uno stile di vita essenziale, a scelte che lasciano
trapelare il desiderio di essere poveri, secondo quella povertà che Gesù ha
indicato con la beatitudine evangelica (cfr. Mt 5,3). Proprio allo Spirito
Santo chiedo che mi insegni le modalità della “mia” povertà: quella semplicità
di vita che risponda a criteri ingiunti dal volere di Dio per questo
determinato servizio. Occorre scrutarli quotidianamente nella preghiera; e, nella
misura in cui progredirò nella pratica di queste virtù, avrò consapevolezza
della volontà divina, giacché buon senso e sobrietà introducono al cospetto di
Dio.
Da
questo sacrificio di todah risaltano
pure riconoscenza e gratitudine nei riguardi del Cardinale e dei Vescovi della
Sicilia, presenti ed assenti. La loro fraterna accoglienza ravviva in me quel
desiderio di comunione che ancora l’autore di 1Pt esprime in forma di servizio
e peculiare oblazione: «pascete il gregge […] non esercitando possessività
sulla porzione eredita, ma diventando modelli» (1Pt 5,3). Ciò mi induce a
ricordare alcuni testimoni, týpoi di
Cristo, che mi hanno formato a questa spiritualità di comunione: il mio
parroco, don Casiraro, i formatori del Seminario Vescovile di Noto, di Acireale
e dell’Almo Collegio Capranica; i miei Vescovi che da mons. Nicolosi in poi mi
hanno insegnato a fissare lo sguardo su Gesù, guida e perfezionatore della fede
che oggi stiamo professando coralmente; i miei accompagnatori spirituali fino a
mons. De Nicolò, dai quali ho imparato a scrutare l’intimità del mistero di
Cristo e tutti gli amici, presbiteri e non, che mi hanno comunicato, con l’esemplarità
della vita, l’amore verso la Parola di Dio, mio nutrimento quotidiano. È
davvero sacrificio di todah quello
che desidero elevare al Signore, tenendo conto che la dilazione della
gratitudine non ha limiti. Penso a coloro che hanno sostenuto la mia formazione
culturale: i docenti di ieri, in particolare quelli presenti alla celebrazione,
dai quali ho appreso che il teologare è come essere in cucina per allestire una
buona pietanza: «un po’ di conoscenza della Scrittura; un po’ di conoscenza
della storia della chiesa e di quello che hanno scritto gli altri; un po’ di
conoscenza di quello che scrivono anche i filosofi e gli uomini di cultura.
Tutto questo, se messo assieme nella maniera giusta, permette di comprendere
come parlare in maniera un po’ più adeguata del Signore in cui crediamo». Ma
anche i docenti di oggi, ovvero tutti quegli studenti dello Studio Teologico S.
Paolo e degli altri Istituti di formazione teologica, dai quali ho imparato a
mediare, ascoltando le loro obiezioni, le conoscenze che negli anni si sono
trasformate in contenuto orante.
Accanto
ai presenti che ringrazio di cuore: parenti, amici, conoscenti, autorità civili
e militari che afferiscono alle Diocesi di Noto e Piazza Armerina, il
sacrificio di todah include
nell’elevazione la gratitudine per la mia famiglia. È il basamento solido sul
quale il Signore ha voluto che stabilissi la dimora. Anche questo e soprattutto
questo è charis. L’accezione paolina
non è assimilabile con facilità, benché l’apostolo abbia lasciato righe
importanti per comprenderne «l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la
profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché
siate ricolmi della pienezza di Dio» (Ef 3,18-19). Ho colto questa pienezza
nell’esempio dei miei genitori: essi mi hanno comunicato, per così dire
geneticamente, quelle virtù umane e spirituali che oggi mi consentono di
allargare lo sguardo verso tutti con sincera apertura e a Dio con infinito
senso di gratitudine. Tale esemplarità, che si è pure trasmessa nella vita di
mia sorella, a cui assieme a Francesco va un fraterno grazie, possa germinare
un ulteriore corredo di virtù multiformi per fecondare il presbiterio di questa
sposa che è la Chiesa di Piazza Armerina. La celebrazione ha consentito di
sperimentare un forte momento di comunione, al punto da non riuscire a trattenere
lo stupore tramutatosi in gratitudine. È così che vorrei ringraziare tutti e in
particolare coloro che hanno sacrificato il proprio tempo per lo svolgimento di
questa celebrazione, sia della Diocesi di Noto che di Piazza Armerina. A trovare
le parole giuste mi aiuta un Sermone di Leone Magno: «È cosa grande e molto
preziosa al cospetto del Signore, quando tutto il popolo di Cristo si applica
insieme agli stessi doveri, e tutti i gradi e tutti gli ordini, di ambedue i
sessi, collaborano con un medesimo spirito […]. Nulla vi è di disordinato,
nulla di diverso in questo popolo, in cui tutte le membra del corpo cooperano a
vicenda a mantener vigoroso l’amore; e non si confonde per la propria povertà
colui che si gloria dell’abbondanza altrui: la gloria dei singoli è decoro per
tutti. Abbracciamo dunque, carissimi, questo vincolo beato di sacra unità» (Sermo 88,4).
Questo
sacrificio di todah mi porta infine a
ringraziare Dio per la Madonna che in questa Cattedrale si venera con il titolo
di Maria SS.ma delle Vittorie, patrona della Diocesi. A lei mi affido per
imparare a scorgere con umiltà le misericordie del Signore; di lei porto nel
mio cuore l’ubbidienza alla Parola di Dio e con lei desidero servire questa
Chiesa secondo i principi della sequela. L’evangelo che la madre del Signore ha
portato nel suo cuore possa formare in me la mente, rendendola sobria (cfr. 1Pt
1,13), nell’intento di fissare l’immagine di Gesù che «da ricco che era si è
fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà»
(2Cor 8,9). Questo monito discepolare, che rammenta l’originalità
dell’incarnazione del Verbo, mi fa ringraziare Dio con le parole di Agostino: «Santa
Maria adempì la volontà del Padre, l’adempì interamente e perciò conta di più
essere stata discepola di Cristo che sua madre […]. È beata, perché ascoltò la
Parola di Dio e la custodì. Custodì la verità nel cuore più che la carne nel
ventre. La verità è Cristo, la carne è Cristo; Cristo-verità nel cuore di
Maria, Cristo-carne nel ventre di Maria. Vale di più ciò che è nel cuore di ciò
che viene portato nel ventre» (Sermo
72A,7).
Don
Rosario