'Un senso per Catania'
di Valeria Giuffrida 04/02/2009
Intervista Carmelo Nigrelli: l’urbanista, sindaco di Piazza Armerina, spiega perché la demolizione sia necessaria all’identità di una città quanto la conservazione e dà un consiglio al suo collega Stancanelli: ‘il Piano Regolatore è un pannicello caldo se non si considera tutta l' area metropolitana’
Nigrelli, nel libro da Lei curato, “Il senso del vuoto” (ed. Manifestolibri, 2005), la demolizione è considerata necessaria quanto la conservazione per preservare l’esistenza di una città. Eppure oggi non si demolisce più ma si continua a conservare. Come mai?
Demolire ormai è diventato una sorta di tabù perché è considerato una riduzione di tutti quegli elementi che concorrono a determinare identità ed economia di una comunità. È come se togliere significasse dover rimettere per forza, perché altrimenti avremmo solo una perdita. In quest’ottica, mantenere un approccio additivo è più rassicurante di uno sottrattivo. In fondo, quello di cui ragioniamo nel libro è un problema che sembra essere più esistenzialista che urbanistico.
E se conservare fosse una specie di paura del nuovo, visto come “barbaro” o semplicemente brutto rispetto alle opere del passato?
Più che paura del nuovo, io parlerei di horror vacuis. Non credo che il nuovo venga considerato brutto, visto che negli ultimi anni si sta addirittura eccedendo in quelle che Bernard Brecht chiamerebbe “gesticolazioni architettoniche”. Un esempio sono i tre grattacieli per la Fiera di Milano, simbolo di una ricerca del landmark a tutti i costi.
Nella prefazione del libro lei scrive, citando Furio Colombo, che non si distrugge perché non si progetta e non si progetta perché manca una visione della vita che lo permetta. Secondo Lei perché?
C’è il timore di togliere qualcosa e non saperlo rimpiazzare con qualcos’altro di altrettanto significativo. È una mancanza di fiducia nei propri mezzi.
Può aver influito in questo atteggiamento, specie nelle città del Sud, lo spettro della cattiva gestione di fondi e degli scandali edilizi? Un esempio su tutti sarebbe il “sacco di Palermo” dell’era Ciancimino…
Sicuramente. La città è un campo di battaglia sul quale si misurano molteplici interessi, collettivi e individuali, leciti e illeciti, non tenere conto di questo significa non affrontare il problema. Che ci siano forze che tentano di raggiungere obiettivi anche illeciti è normale, lo sappiamo tutti. Dobbiamo però pensare a come contenere queste forze. Il “sacco di Palermo” è un caso a parte per il suo diverso rapporto con la demolizione: sono state distrutte le ville Liberty di via Libertà in favore di una costruzione selvaggia di condomini, cancellando così una parte importante di una Palermo fino ad allora tra le capitali europee della cultura.
Parliamo di Catania e di come restituirle un “senso”. Si discute sempre quali siano le strategie migliori per favorire il turismo nel centro storico. Lei che idee ha a riguardo?
Penso che non si debbano piegare le esigenze di una città in favore del turismo. Certo, è un elemento importante da prendere in considerazione, ma alla pari di altri. A Catania basterebbe ragionare su cosa fare del Corso Martiri della Libertà. E – dopo quarant’anni – farlo, finalmente.
di Valeria Giuffrida 04/02/2009
Intervista Carmelo Nigrelli: l’urbanista, sindaco di Piazza Armerina, spiega perché la demolizione sia necessaria all’identità di una città quanto la conservazione e dà un consiglio al suo collega Stancanelli: ‘il Piano Regolatore è un pannicello caldo se non si considera tutta l' area metropolitana’
Nigrelli, nel libro da Lei curato, “Il senso del vuoto” (ed. Manifestolibri, 2005), la demolizione è considerata necessaria quanto la conservazione per preservare l’esistenza di una città. Eppure oggi non si demolisce più ma si continua a conservare. Come mai?
Demolire ormai è diventato una sorta di tabù perché è considerato una riduzione di tutti quegli elementi che concorrono a determinare identità ed economia di una comunità. È come se togliere significasse dover rimettere per forza, perché altrimenti avremmo solo una perdita. In quest’ottica, mantenere un approccio additivo è più rassicurante di uno sottrattivo. In fondo, quello di cui ragioniamo nel libro è un problema che sembra essere più esistenzialista che urbanistico.
E se conservare fosse una specie di paura del nuovo, visto come “barbaro” o semplicemente brutto rispetto alle opere del passato?
Più che paura del nuovo, io parlerei di horror vacuis. Non credo che il nuovo venga considerato brutto, visto che negli ultimi anni si sta addirittura eccedendo in quelle che Bernard Brecht chiamerebbe “gesticolazioni architettoniche”. Un esempio sono i tre grattacieli per la Fiera di Milano, simbolo di una ricerca del landmark a tutti i costi.
Nella prefazione del libro lei scrive, citando Furio Colombo, che non si distrugge perché non si progetta e non si progetta perché manca una visione della vita che lo permetta. Secondo Lei perché?
C’è il timore di togliere qualcosa e non saperlo rimpiazzare con qualcos’altro di altrettanto significativo. È una mancanza di fiducia nei propri mezzi.
Può aver influito in questo atteggiamento, specie nelle città del Sud, lo spettro della cattiva gestione di fondi e degli scandali edilizi? Un esempio su tutti sarebbe il “sacco di Palermo” dell’era Ciancimino…
Sicuramente. La città è un campo di battaglia sul quale si misurano molteplici interessi, collettivi e individuali, leciti e illeciti, non tenere conto di questo significa non affrontare il problema. Che ci siano forze che tentano di raggiungere obiettivi anche illeciti è normale, lo sappiamo tutti. Dobbiamo però pensare a come contenere queste forze. Il “sacco di Palermo” è un caso a parte per il suo diverso rapporto con la demolizione: sono state distrutte le ville Liberty di via Libertà in favore di una costruzione selvaggia di condomini, cancellando così una parte importante di una Palermo fino ad allora tra le capitali europee della cultura.
Parliamo di Catania e di come restituirle un “senso”. Si discute sempre quali siano le strategie migliori per favorire il turismo nel centro storico. Lei che idee ha a riguardo?
Penso che non si debbano piegare le esigenze di una città in favore del turismo. Certo, è un elemento importante da prendere in considerazione, ma alla pari di altri. A Catania basterebbe ragionare su cosa fare del Corso Martiri della Libertà. E – dopo quarant’anni – farlo, finalmente.
E demolire l’ospedale Santa Marta, come Lei scrive nel libro…
Si, anche se avrebbe un significato simbolico più che altro.
Si, anche se avrebbe un significato simbolico più che altro.
In alcune parti della Catania più antica vivono persone di origine straniera (un esempio su tutti è la Chinatown della zona fiera) in edifici spesso abbandonati all’incuria. Come intervenire in queste zone e come armonizzare questo incontro culturale?
Per questo è necessaria l’integrazione culturale per ottenere quella urbanistica. Nelle città ci sono quartieri abitati di volta in volta dai paria, che in questo momento sono gli immigrati. Man mano che l’alta borghesia, seguita dalla piccola borghesia, si sposta, le zone cambiano. Ecco perché l’unica soluzione per avere un’integrazione urbanistica è puntare su quella sociale ed economica.
Cosa andrebbe fatto per le cosiddette “città satellite” perché abbandonino quell’immagine di degrado e spersonalizzazione? Basti pensare ai casermoni di Librino. Eppure all’epoca c’era un progetto, anche l’idea di trasferire lì sedi istituzionali come l’Università o gli uffici della Provincia…
Il fatto è che bisogna considerarle città vere e proprie. Librino ha settanta mila abitanti, è già una piccola città. Il problema non sono le case, è che ci sono solo quelle. Bisognerebbe mettere tutto il resto, tutto ciò che è legato alla residenza, come le scuole o il verde.
Per questo è necessaria l’integrazione culturale per ottenere quella urbanistica. Nelle città ci sono quartieri abitati di volta in volta dai paria, che in questo momento sono gli immigrati. Man mano che l’alta borghesia, seguita dalla piccola borghesia, si sposta, le zone cambiano. Ecco perché l’unica soluzione per avere un’integrazione urbanistica è puntare su quella sociale ed economica.
Cosa andrebbe fatto per le cosiddette “città satellite” perché abbandonino quell’immagine di degrado e spersonalizzazione? Basti pensare ai casermoni di Librino. Eppure all’epoca c’era un progetto, anche l’idea di trasferire lì sedi istituzionali come l’Università o gli uffici della Provincia…
Il fatto è che bisogna considerarle città vere e proprie. Librino ha settanta mila abitanti, è già una piccola città. Il problema non sono le case, è che ci sono solo quelle. Bisognerebbe mettere tutto il resto, tutto ciò che è legato alla residenza, come le scuole o il verde.
Il senatore Bianco ha dichiarato che nella prossima discussione del Piano Regolatore di Catania, il sindaco Stancanelli dovrebbe ascoltare maggiormente gli esperti di urbanistica. In quanto urbanista, Lei cosa gli consiglierebbe?
Direi che Catania non può essere pianificata se non insieme alla sua area metropolitana. Il Piano Regolatore di Catania non è altro che un “pannicello caldo” rispetto ai problemi dell’area metropolitana catanese.
Lei è sindaco di Piazza Armerina: quale contributo sta portando alla città? Per esempio per rilanciare il patrimonio artistico-culturale della Villa Romana del Casale coi suoi mosaici?
Sto cercando di riposizionare Piazza Armerina nel quadro del turismo internazionale, non più come città accanto alla Villa Romana ma come città d’arte al pari delle città in Umbria o in Toscana. E lo sto facendo puntando sul patrimonio storico artistico, sull’identità della comunità e della città.
dal sito www.step1.it
Direi che Catania non può essere pianificata se non insieme alla sua area metropolitana. Il Piano Regolatore di Catania non è altro che un “pannicello caldo” rispetto ai problemi dell’area metropolitana catanese.
Lei è sindaco di Piazza Armerina: quale contributo sta portando alla città? Per esempio per rilanciare il patrimonio artistico-culturale della Villa Romana del Casale coi suoi mosaici?
Sto cercando di riposizionare Piazza Armerina nel quadro del turismo internazionale, non più come città accanto alla Villa Romana ma come città d’arte al pari delle città in Umbria o in Toscana. E lo sto facendo puntando sul patrimonio storico artistico, sull’identità della comunità e della città.
dal sito www.step1.it