Il termine
“sobrietà” traduce una parola greca più complessa e più ricca, che corrisponde
a: saggezza, equilibrio, padronanza di sé, moderazione, temperanza. Sobrio è
colui che non è ebbro. Sobrietà è l’opposto di ubriachezza.
Non è
difficile, pertanto, intuire quale arcipelago di atteggiamenti morali viene evocato quando, parlando a uomini
immersi nell’attività politica, li si esorta a vivere con sobrietà.
Non
ubriacarsi di potere. Non esaltarsi per un successo. Non montarsi il capo con i
fumi della gloria. Guardarsi dal capogiro dei soldi e della carriera. Coltivare
religiosamente l’autocoscienza del limite. Evitare la sbornia delle promesse.
Mantenere l’equilibrio nel vortice delle passioni.
Preservarsi
dalle vertigini che può dare il potere d’acquisto della propria parola, sul
tavolo delle spartizioni e dei compromessi.
C’è un passo
biblico molto significativo, nel libro dei Proverbi, che vieta espressamente il
vino a coloro che stanno a capo di un popolo: “Non conviene ai re bere il
vino, né ai principi bramare bevande inebrianti, per paura che, bevendo,
dimentichino i loro decreti e tradiscano il diritto di tutti gli afflitti”
(Pr. 31,4).
Ovviamente,
sotto la proibizione del vino materiale, si vogliono mettere in guardia gli
uomini di governo da tutto ciò che, come si suol dire, può dare alla testa.
Nessuno più di loro, infatti, è esposto alla tentazione dei “fumi” e al
conseguente pericolo di provocare, con ubriacature morali, l’oblio delle leggi
e il tradimento dei poveri.
Da queste
considerazioni deve scattare per voi una sincera revisione critica dei vostri
comportamenti pubblici, che vi porti a ripudiare ogni intemperanza di potere,
ad aborrire dall’esercizio smodato dell’autorità, a convincervi umilmente che
anche senza di voi il mondo riesce a sopravvivere e a ritrovare l’equilibrio
nelle parole del Signore: “Quando avrete fatto tutto quello che vi stato
ordinato, dite: siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”
(Lc.17,10).
Se, però,
l’invito alla sobrietà richiama in causa il comportamento dei singoli, non si
esaurisce certo alla sfera personale, ma tocca anche un processo degenerativo
comunitario, in atto nel sistema politico nazionale, che provoca riverberi
funesti perfino nelle nostre città.
Ed è la
partitocrazia, che potremmo chiamare l’ubriachezza dei partiti.
I partiti,
secondo la carta costituzionale, dovrebbero essere i cosiddetti “corpi
intermedi” la cui funzione è paragonabile a quella che il fusto svolge
nella pianta. Il nostro modello di stato sociale, infatti, assomiglia proprio
ad un albero le cui radici sono costituite dal popolo e i cui rami sono dati
dalle pubbliche istituzioni.
Il compito
del fusto, cioè dei partiti, è quello di raccogliere e coordinare le istanze
vive della base per tradurle in domanda politica organica che vada a innervarsi
sui rami.
I cittadini,
quindi, sia singolarmente presi, sia associati in raggruppamenti primari detti
“mondi vitali”, sono le radici del sistema in quanto detengono la sovranità e
delegano il potere ai loro rappresentanti
affinché lo esercitino nell’interesse del bene comune. I partiti, invece, hanno
il compito di incanalare le spinte sociali diverse organizzando il consenso
popolare attorno a una determinata politica.
La politica,
perciò, secondo una splendida espressione dei vescovi francesi, può essere
definita “coagulante sociale”, in quanto stringe forze diverse attorno ad un
medesimo progetto.
È successo
però, purtroppo, che il fusto è impazzito a danno delle radici e dei rami. I
partiti, cioè, si sono ubriacati.
Verso il
basso, hanno espropriato i cittadini e i “mondi vitali” di alcune loro mansioni
primarie, assorbendo per esempio l’informazione, l’editoria, la cultura, lo
spettacolo, e spesso condizionando la vita di gruppi e associazioni.
Verso
l’alto, hanno invaso quasi tutte le istituzioni dello stato, non solo
lottizzandosi gli enti pubblici esclusivamente secondo criteri di appartenenza
politica, ma anche mitizzando la disciplina di partito (se non addirittura di corrente)
a scapito della coscienza individuale e snervando perfino la sovranità del
Parlamento, sempre più ridotto a cassa di risonanza per accordi presi fuori di
esso.
Non è più lo
stato sociale, ma lo stato dei partiti.
Le conseguenze di questo corto circuito sono drammatiche. Da una parte i problemi
ristagnano, i progetti parcheggiano, gli intoppi burocratici si infittiscono, e
perfino certe provvidenze di legge si incagliano sui fondali della sclerosi
amministrativa, si usurano negli intrighi delle clientele, e naufragano nel
gioco delle correnti.
Dall’altra
parte cala la fiducia nella politica, visto che è stata ridotta dalla
partitocrazia non a “coagulante” ma a “dissolvente” sociale. L’opinione
pubblica accentua sempre più la tendenza ad angelicare la società e a
demonizzare lo stato.
I giovani,
pur sentendo una vivissima vocazione alla solidarietà, preferiscono riversare
il loro impegno nel volontariato: questo sta a dire che rifiutano ormai le
semplici proposte di gestione e cercano altrove i laboratori per la
rigenerazione dell’humus etico della politica.
Si tirano
indietro anche gli adulti, disgustati dallo spettacolo dei partiti che,
abusando di reciproche interdizioni per osceni motivi di ingordigia nella
spartizione delle pubbliche spoglie, producono, anche nelle nostre
amministrazioni locali, paurosi ristagni e incredibili paralisi di governo.
Se è vero
che l’impegno generoso e trasparente che si esprime in un partito, per il bene
comune, è una forma altissima di carità, il fatto che le sezioni politiche si
svuotino provoca nel vescovo una preoccupazione non meno sofferta di quando
vede disertata la sede di un gruppo ecclesiale.
È urgente
che i partiti, i quali restano pur sempre strumento essenziale della nostra
democrazia rappresentativa, si disintossichino dall’ubriacatura.
Si ravvedano
dal loro delirio di onnipotenza. Riacquistino la sobrietà.
“Concorrano”,
cioè, come dice l’art. 49 della Costituzione, “a determinare la politica
nazionale”, ma senza la pretesa di monopolizzarla definitivamente. E tornino al
loro compito fondamentale, che è quello di ascoltare la gente, educare i
comportamenti, mediare gli interessi, e non certo di trasformarsi in forche
caudine, da cui, anche per il più semplice sospiro, bisogna necessariamente
passare, attraverso sistemi di tessere, clientele e patronati correntizi.
+ Don Tonino
Bello meglio
conosciuto come don Tonino (Alessano, 18 marzo 1935 - Molfetta, 20 aprile
1993), è stato un vescovo cattolico italiano.