martedì 19 febbraio 2013

Lettera ai politici: vivere con sobrietà, giustizia e pietà



di Tonino Bello
Il termine “sobrietà” traduce una parola greca più complessa e più ricca, che corrisponde a: saggezza, equilibrio, padronanza di sé, moderazione, temperanza. Sobrio è colui che non è ebbro. Sobrietà è l’opposto di ubriachezza.
Non è difficile, pertanto, intuire quale arcipelago di atteggiamenti morali viene evocato quando, parlando a uomini immersi nell’attività politica, li si esorta a vivere con sobrietà.
Non ubriacarsi di potere. Non esaltarsi per un successo. Non montarsi il capo con i fumi della gloria. Guardarsi dal capogiro dei soldi e della carriera. Coltivare religiosamente l’autocoscienza del limite. Evitare la sbornia delle promesse. Mantenere l’equilibrio nel vortice delle passioni.
Preservarsi dalle vertigini che può dare il potere d’acquisto della propria parola, sul tavolo delle spartizioni e dei compromessi.
C’è un passo biblico molto significativo, nel libro dei Proverbi, che vieta espressamente il vino a coloro che stanno a capo di un popolo: “Non conviene ai re bere il vino, né ai principi bramare bevande inebrianti, per paura che, bevendo, dimentichino i loro decreti e tradiscano il diritto di tutti gli afflitti” (Pr. 31,4).
Ovviamente, sotto la proibizione del vino materiale, si vogliono mettere in guardia gli uomini di governo da tutto ciò che, come si suol dire, può dare alla testa. Nessuno più di loro, infatti, è esposto alla tentazione dei “fumi” e al conseguente pericolo di provocare, con ubriacature morali, l’oblio delle leggi e il tradimento dei poveri.
Da queste considerazioni deve scattare per voi una sincera revisione critica dei vostri comportamenti pubblici, che vi porti a ripudiare ogni intemperanza di potere, ad aborrire dall’esercizio smodato dell’autorità, a convincervi umilmente che anche senza di voi il mondo riesce a sopravvivere e a ritrovare l’equilibrio nelle parole del Signore: “Quando avrete fatto tutto quello che vi stato ordinato, dite: siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc.17,10).
Se, però, l’invito alla sobrietà richiama in causa il comportamento dei singoli, non si esaurisce certo alla sfera personale, ma tocca anche un processo degenerativo comunitario, in atto nel sistema politico nazionale, che provoca riverberi funesti perfino nelle nostre città.
Ed è la partitocrazia, che potremmo chiamare l’ubriachezza dei partiti.
I partiti, secondo la carta costituzionale, dovrebbero essere i cosiddetti “corpi intermedi” la cui funzione è paragonabile a quella che il fusto svolge nella pianta. Il nostro modello di stato sociale, infatti, assomiglia proprio ad un albero le cui radici sono costituite dal popolo e i cui rami sono dati dalle pubbliche istituzioni.
Il compito del fusto, cioè dei partiti, è quello di raccogliere e coordinare le istanze vive della base per tradurle in domanda politica organica che vada a innervarsi sui rami.
I cittadini, quindi, sia singolarmente presi, sia associati in raggruppamenti primari detti “mondi vitali”, sono le radici del sistema in quanto detengono la sovranità e delegano il potere ai loro rappresentanti affinché lo esercitino nell’interesse del bene comune. I partiti, invece, hanno il compito di incanalare le spinte sociali diverse organizzando il consenso popolare attorno a una determinata politica.
La politica, perciò, secondo una splendida espressione dei vescovi francesi, può essere definita “coagulante sociale”, in quanto stringe forze diverse attorno ad un medesimo progetto.
È successo però, purtroppo, che il fusto è impazzito a danno delle radici e dei rami. I partiti, cioè, si sono ubriacati.
Verso il basso, hanno espropriato i cittadini e i “mondi vitali” di alcune loro mansioni primarie, assorbendo per esempio l’informazione, l’editoria, la cultura, lo spettacolo, e spesso condizionando la vita di gruppi e associazioni.
Verso l’alto, hanno invaso quasi tutte le istituzioni dello stato, non solo lottizzandosi gli enti pubblici esclusivamente secondo criteri di appartenenza politica, ma anche mitizzando la disciplina di partito (se non addirittura di corrente) a scapito della coscienza individuale e snervando perfino la sovranità del Parlamento, sempre più ridotto a cassa di risonanza per accordi presi fuori di esso.
Non è più lo stato sociale, ma lo stato dei partiti.
Le conseguenze di questo corto circuito sono drammatiche. Da una parte i problemi ristagnano, i progetti parcheggiano, gli intoppi burocratici si infittiscono, e perfino certe provvidenze di legge si incagliano sui fondali della sclerosi amministrativa, si usurano negli intrighi delle clientele, e naufragano nel gioco delle correnti.
Dall’altra parte cala la fiducia nella politica, visto che è stata ridotta dalla partitocrazia non a “coagulante” ma a “dissolvente” sociale. L’opinione pubblica accentua sempre più la tendenza ad angelicare la società e a demonizzare lo stato.
I giovani, pur sentendo una vivissima vocazione alla solidarietà, preferiscono riversare il loro impegno nel volontariato: questo sta a dire che rifiutano ormai le semplici proposte di gestione e cercano altrove i laboratori per la rigenerazione dell’humus etico della politica.
Si tirano indietro anche gli adulti, disgustati dallo spettacolo dei partiti che, abusando di reciproche interdizioni per osceni motivi di ingordigia nella spartizione delle pubbliche spoglie, producono, anche nelle nostre amministrazioni locali, paurosi ristagni e incredibili paralisi di governo.
Se è vero che l’impegno generoso e trasparente che si esprime in un partito, per il bene comune, è una forma altissima di carità, il fatto che le sezioni politiche si svuotino provoca nel vescovo una preoccupazione non meno sofferta di quando vede disertata la sede di un gruppo ecclesiale.
È urgente che i partiti, i quali restano pur sempre strumento essenziale della nostra democrazia rappresentativa, si disintossichino dall’ubriacatura.
Si ravvedano dal loro delirio di onnipotenza. Riacquistino la sobrietà.
“Concorrano”, cioè, come dice l’art. 49 della Costituzione, “a determinare la politica nazionale”, ma senza la pretesa di monopolizzarla definitivamente. E tornino al loro compito fondamentale, che è quello di ascoltare la gente, educare i comportamenti, mediare gli interessi, e non certo di trasformarsi in forche caudine, da cui, anche per il più semplice sospiro, bisogna necessariamente passare, attraverso sistemi di tessere, clientele e patronati correntizi.
+ Don Tonino Bello meglio conosciuto come don Tonino (Alessano, 18 marzo 1935 - Molfetta, 20 aprile 1993), è stato un vescovo cattolico italiano.

Chi sono

Qualcuno, di cui non ho molta stima, mi chiama "Architetto di Dio". La cosa, però, mi piace. Dicono che sono un architetto eclettico ed un pò anomalo. Il mio lavoro è a metà tra i restauri ed il turismo. Sono cooperatore salesiano e amo Don Bosco. Sono sposato con Cinzia che amo. Abbiamo tre figli, Gabriele Samuele e Gaia. Se vuoi scrivermi ecco la mail architettodidio@gmail.com


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"Il senso di inquietudine mi insegue sempre e quando mi pare di aver colto una certezza ricado nell'assoluto smarrimento. Mi chiedo: sono al posto giusto, al momento giusto? Boh! che casino è la VITA e quanto doloroso è questo cammino di scoperta dell'Assoluto che c'è in noi!"

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