Di Pietrangelo Buttafuoco
Tutta quella Sicilia che riempiva la giornata d'Italia non c'è più. Niente più fiaccolate, non più collegamenti con la ruggente tivù dell'impegno, neppure più il grande cinema, anzi: la suggestione del maresciallo Polenza, in Sedotta e abbandonata, è ormai realtà.
È il film di Pietro Germi dove il carabiniere, stremato da un'umanità impossibile, mette una mano sulla carta geografica della penisola, toglie quella parte di patria pazza e irredimibile e dice: «Piovesse sale!». E tutto quel sale, adesso, piove sulla ferita più inaspettata per la Sicilia. Per esserci, certo, nella mappa nazionale l'isola c'è ancora: al centro del Mediterraneo - ma nell'irrilevanza.
Tutta quella primavera palermitana - quella che teneva scena in politica, nel dibattito culturale, nell'ansia di legalità - adesso è solo un magazzino cadente di vecchi ricordi. La Sicilia è passata di moda. Forse è il ricettacolo del pittoresco (tanto temuto da Giovanni Gentile, che nel 1919 s'impegnò a scongiurarne la deriva provinciale con un libro: Il tramonto della cultura siciliana) ed è diventata periferia se perfino a Corleone - dove c'erano i Luciano Liggio, i Totò Riina e i Bernardo Provenzano - ci si annoia. A Scampia, invece - già con i personaggi di fantasia, figurarsi con i mostri veri - si avverte il brivido, foss'anche nel semplice sentir arrivare uno scooter.
Tutta quella pubblicistica non c'è più. Non ci sono più i best-seller di Giovanni Falcone, i libri di Peppino Ayala, la scienza esatta e assolata di Michele Pantaleone; mentre le pagine di Danilo Dolci o di Carlo Levi - uomini che si facevano siciliani per cambiare al meglio l'Italia, facendosi scudo del catalogo Einaudi - se ne stanno remote come le quinte di un palcoscenico non più frequentato. Agli inviati del giornalismo internazionale si sono sostituiti gli sceneggiatori delle terrazze romane, le serie tivù sono oggi le nuove rotative che impegnano non più un genius loci con cui ingaggiare un corpo a corpo bensì un genere in cui il testacoda è morale ancor prima che estetico, e tutto il corredo simbolico e culturale di derivazione siciliana - giusto adesso che trionfano Gomorra e la camorra - è irrimediabilmente cassato. Neanche i magistrati - tra il fare e lo strafare degli Antonio Ingroia - riescono a diventare protagonisti. L'unico che si prende la scena nazionale è Raffaele Cantone, napoletano va da sé. E delle Due Sicilie, dunque, ne è rimasta solo una.
La mafia, quindi, il cui indotto di malia narrativa fu mondiale (da Mario Puzo in poi, passando per Leonardo Sciascia), ha perso appeal. Nell'estetica della criminalità vince un altro codice: gli ultimi criminali assicurati alla giustizia hanno ceffi phonati e camicie di seta, altro che il pane e cicoria di Provenzano. E nella Sicilia che passa di moda l'unica certezza che resta è Andrea Camilleri.
La mafia, quindi, il cui indotto di malia narrativa fu mondiale (da Mario Puzo in poi, passando per Leonardo Sciascia), ha perso appeal. Nell'estetica della criminalità vince un altro codice: gli ultimi criminali assicurati alla giustizia hanno ceffi phonati e camicie di seta, altro che il pane e cicoria di Provenzano. E nella Sicilia che passa di moda l'unica certezza che resta è Andrea Camilleri.
Montalbano, il commissario, irresistibile al pari di un paladino dell'Opera dei Pupi, mantiene il brand. Il marchio è l'identità, e il mercato che ne deriva - dai film per la tivù al turismo - fa volgere ancora uno sguardo di compiacimento verso la Sicilia, vi ravviva la lingua e forgia una fatica creativa tutta speciale, che però i siciliani ripagano con il più paradossale dei primati certificato dall'Istat: abitare la regione dove si legge meno in assoluto.
Tutta quella scrittura, la città del racconto moderno che ebbe in Federico de Roberto il fondatore, l'ideatore di un'architettura da cui è derivata la letteratura nazionale coincidente con la sicilitudine - con Luigi Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Lucio Piccolo, Sciascia, appunto, Gesualdo Bufalino e Camilleri - , è barattata, nell'immaginario, con la chincaglieria cheap il cui apice televisivo è Baciamo le mani. È il melodramma televisivo di Tedosio Losito, tanto di cappello al successo commerciale ma di certo, nel paragone, lo sceneggiato Mediaset non regge la ragione sociale di una tradizione - quella dell'arte - dove il grande cinema prendeva a pretesto la Sicilia per mettere in scena il costume italiano. C'era Germi. C'era Luchino Visconti. C'era quindi Alberto Lattuada, e ovviamente Francis Ford Coppola, fino ad arrivare a Giuseppe Tornatore. Tutte le maschere d'Italia - da Marcello Mastroianni a Monica Vitti, passando per Alberto Sordi e perfino Totò - cercavano quel palcoscenico. E se segnale si può avere di una voga finita, l'industria del cinema non c'è più al punto che Daniele Ciprì ha dovuto girare in Puglia È stato il figlio, film ambientato a Palermo.
Tutta quella politica non c'è più. Un uomo arriva all'ingresso del quotidiano l'Ora e chiede del direttore. «Chi debbo annunciare?» domanda Saro Mineo, l'usciere. «Vittorini», è la risposta. «Perfetto», annota Mineo, «Vittorino è il nome, ma il cognome?». Ecco, figurarsi il livello dei frequentatori. E in quel giornale (le cui punte operative furono il direttore Vittorio Nisticò e, per il Pci, Paolo Bufalini ed Emanuele Macaluso) si forma la vera agorà, il Ballarò d'eccellenza dove arrivano, tra gli altri, Gaia Servadio, Giorgio Bocca, Nino Rota, Federico Fellini, Franco Zeffirelli e Indro Montanelli. Nessuno, in quel giornale, in quelle giornate - correva l'anno 1969 si sente fuori del mondo, la ruota gira nel verso della contemporaneità, ed è in Sicilia che l'egemonia culturale della sinistra sperimenta, tramite Renato Guttuso (e Visconti, anche attraverso l'operazione Gattopardo), la solidità di parola e di mercato dell'immaginario.
Tutta quella politica, oggi, non ha più epica, al massimo qualche dibattito sulla cassa integrazione. Il regionalismo, la sindrome del pittoresco e il tipico cascame provinciale del rivendicare una specificità - tanto temuto da Gentile - svelano un vuoto più che un arretramento. L'alfabeto siciliano del «secolo breve», cominciando con i Vicerè per finire con il Giorno della Civetta, sta rodando un'uscita di scena. E dunque sempre viva Camilleri, che sa accendere di vampe un blasone di genio e ironia. Eccolo, osservatelo: è dal tabaccaio, superbo fumatore qual è; chiede un pacchetto di sigarette, e siccome in ogni confezione c'è un monito iettatorio, Camilleri rifiuta quella con scritto «nuoce gravemente la salute», dice no anche a quella con «provoca il cancro», esclude «danneggia il feto» e, con un sorriso saputo ed educato, forte del privilegio del cliente abituale, dice: «Mi dia, per favore, quelle con sopra scritto "invecchia la pelle"». Ecco, tutta quella Sicilia, in uno straordinario, cinico e beffardo filo di fumo.
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