lunedì 27 agosto 2012

Mal di Sicilia...

di Emanuele Pecheux

Wolfgang Goethe, durante il suo primo viaggio in Italia, durato ben 2 anni soggiornò in Sicilia da febbraio a marzo del 1787. 
Di quel soggiorno, contrappuntato da visite nei luoghi dove si godeva (e tutt'ora, nonostante le perduranti ingiurie e ferite che periodicamente vengono loro inferte, si gode) l'indescrivibile brivido che procura la sintesi tra le meravigliose testimonianze di una storia millenaria e la bellezza di una natura tanto unica quanto cangiante, restano alcuni mirabili e altrettanto emozionanti versi: 
"Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni? 
Nel verde fogliame splendono arance d'oro 
Un vento lieve spira dal cielo azzurro..."

Tuttavia,nell'anno di grazia 2012, chi, come Goethe, affetto dalla sindrome sottile che potrebbe essere definita "mal di Sicilia", torna a soggiornare nell'isola non può non ripensare a un appunto che nel suo secondo viaggio Goethe scrisse: 
"(..) è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, 
(..) C'è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina; 
ognuno pensa per sé, è vano, dell'altro diffida (..)". 
Dopo oltre due secoli lo stato delle cose è più o meno quello descritto, con l'amarezza di un amante tradito, dal genio tedesco, se non addirittura peggiore. 
Per la Sicilia e i siciliani, anche se c'è ancora qualcuno che pare non rendersene conto, l'estate che volge al termine è stata devastante. 
Mai come in queste settimane l'isola è sembrata in balìa degli eventi avversi, che, purtroppo va sottolineato, si sono verificati non certo a causa di un destino cinico e baro. 
Il cahier de doleances è troppo lungo per essere declinato e, da solo, già questo dato la dice lunga sul drammatico abbrivio in cui si trova l'isola. 
Senza ricorrere a perifrasi, l'impressione è che la situazione sia ad un passo dall'essere fuori controllo con l'aggravante che il tempo trascorso in questo agosto, anomalo non solo per il caldo soffocante e innaturale anche per queste latitudini, è stato speso nei tentativi di riaffermare un sistema di potere tanto ingordo e sfacciato quanto grottesco nelle modalità con cui si prova, in queste ore, di perpetuarlo. 
La maschera, ad un tempo buffa e drammaticamente grottesca, del governatore Raffaele Lombardo, dimissionario certo, ma convitato di pietra nelle frenetiche trattative di queste ore per il rinnovo dell'Ars, altro non è che l'ennesima rappresentazione in chiave tragicomica di un ceto politico da un lato espressione di un decadente doroteismo trasformista in salsa siciliana (con tutti gli annessi e i connessi) interpretata in larga parte dagli inconsolabili eredi della DC, la cui sottocultura di governo ha continuato a farla da padrona, ancorché sotto mentite spoglie, nella seconda repubblica, dall'altro l'apparentemente perdurante incapacità del campo di centrosinistra di tagliare definitivamente il cordone ombelicale con il populismo giustizialista parolaio e inconcludente che negli ultimi vent'anni ne ha segnato, quasi esclusivamente, l'iniziativa politica. 
In codesta commedia degli errori (meglio sarebbe dire degli orrori) nella quale personalità della politica regionale compiono, senza provare alcun sentimento di decoro e decenza, virate di 360°, passando con nonchalance da insulti da codice penale all'avversario di turno all'embrassons nous con il medesimo, in nome della possibilità di rimettere insieme i tasselli del puzzle di un accrocchio che fa impallidire il ricordo del milazzismo, spicca la zoppìa perdurante di una sinistra che, ad oggi, appare incapace di emendarsi da vizi antichi e nuovi, stretta tra la necessità di riacquistare un briciolo di credibilità dopo le scivolate della legislatura regionale appena conclusasi e il rumoroso rigurgito dell' orlandismo riemerso in tutta la sua invasività dopo il disastro delle comunali palermitane, che finiscono per rendere problematico il dispiegamento di una proposta politica nel segno dell'innovazione. 
Sarà un caso, ma il combinato disposto di codesti (ed altri) ingredienti, allo stato delle cose offre ad un elettorato sfibrato e disilluso (e tuttavia poco incline ai cambiamenti sistemici) come quello siciliano, due candidati di punta negli schieramenti dati, nei pronostici, per maggioritari, entrambi con un pedigree inquietante: uno, appartenente al battaglione dei canguri postcomunisti che si dicono socialisti a Bruxelles ma non appena varcate le Alpi, non sono in grado di spiegare chi siano e dove vadano (che, piaccia o no, è ancora il nodo identitario non sciolto in Italia, dal Pd). 
L'altro, un signore che, in verità non ha mai smesso di denunciare e rivendicare il suo essere fascista, che oggi dichiara di volersi porre a capo di uno schieramento riformista di destra (sic!), dove è arduo capire come un fascista possa praticare il riformismo che del fascismo è l'esatto opposto. 
A corredo, uno schieramento antagonista dove si segnalano un giovanotto nisseno arruffapopolo (grillino o grillista, fate voi) che sostiene che se eletto presidente gli assessori li sceglierà con un concorso pubblico (per carità di patria è meglio non commentare simili nequizie) e il solito figlio del martire (la politica siciliana è piena di figli, sorelle, cugini di primo o secondo grado di martiri) che tenta di uscire dall' oblìo politico in cui è sprofondato a causa dei suoi evidenti limiti, indossando i panni dell'eroe senza macchia e senza paura dei professionisti dell'antimafia (professione tanto redditizia sul piano mediatico quanto inutile, se non dannosa, sul terreno della lotta alla criminalità e del governo della cosa pubblica) e tentando di incendiare con intemerate verbali tanto aggressive quanto inconcludenti in clima politico che di tutto ha bisogno meno che di vivere in uno stato di rissa permanente. 
Nessuno tra i candidati sembra disporsi ad uscire da un lessico zeppo di vaniloqui, spiegando ai siciliani che nei prossimi mesi si dovrà tirare la cinghia, che “bambole non c'è una lira” e chi sarà eletto dovrà necessariamente mettere mano a una riforma copernicana che costerà lacrime e sangue. 
A pensarci bene è plasticamente visibile, anche nella torrida estate del 2012, il grande inganno che da secoli i siciliani subiscono: la riproposizione da parte del potente di turno o dell'aspirante tale di un'onirica promessa di Bengodi che, mutatis mutandi, come nel Consiglio d' Egitto di Leonardo Sciascia, altro non è una perdurante millanteria. 
Infine, ciò che sgomenta, è che del grande inganno sembra accorgersi unicamente chi, come chi scrive, è affetto da un cronico e fortunatamente inguaribile “mal di Sicilia”. 
Emanuele Pecheux

Chi sono

Qualcuno, di cui non ho molta stima, mi chiama "Architetto di Dio". La cosa, però, mi piace. Dicono che sono un architetto eclettico ed un pò anomalo. Il mio lavoro è a metà tra i restauri ed il turismo. Sono cooperatore salesiano e amo Don Bosco. Sono sposato con Cinzia che amo. Abbiamo tre figli, Gabriele Samuele e Gaia. Se vuoi scrivermi ecco la mail architettodidio@gmail.com


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"Il senso di inquietudine mi insegue sempre e quando mi pare di aver colto una certezza ricado nell'assoluto smarrimento. Mi chiedo: sono al posto giusto, al momento giusto? Boh! che casino è la VITA e quanto doloroso è questo cammino di scoperta dell'Assoluto che c'è in noi!"

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