giovedì 29 novembre 2012

Filippo Meli e il confronto alle primarie tra Bersani e Renzi


Ciao Agostì,
ho trovato questo post un po' lunghetto lo so, ma credo che molta gente che si appresta a votare alle primarie non possa non leggerlo. Lo sottoscriverei dalla prima consonante. Ti prego di leggerlo con un po' di attenzione, e se lo riterrai argomento di confronto, di pubblicarlo senza tagli, poiché rischierebbe di non essere capito.
Un saluto
Filippo Meli


Faccio subito coming out: io sono bersaniano. Ma proprio tanto.
Perché Bersani le ha tutte: ha un’età e un’esperienza politica e amministrativa tale da garantire competenza senza avere addosso troppo vecchiume, ha una storia politica affine alla mia, cioè è un ex comunista diventato sinceramente democratico con venature liberaleggianti ed è pure un esempio perfetto di “modello emiliano” con cui credo di avervi assillato negli ultimi vent’anni circa (scusatemi), peraltro avendo ragione.

Insomma, Pierluigi Bersani mi piace da morire come persona, come politico, come amministratore.
Dirò di più: Bersani mi rappresenta. Mi riconosco in lui e tra tutti i candidati alle Primarie è quello nei fatti più affine a quello che sono per storia, educazione, valori.
Ogni volta che guardo quell’immagine un po’ ingrata in cui lui è lì che si beve una birretta da solo (mentre pranza e lavora, perché quelli come noi sono degli stakanovisti quando si tratta di militare) mi viene voglia di pagargli un secondo giro e tenergli compagnia: la conversazione sarebbe di sicuro deliziosa.

Non ho problemi ad ammetterlo: Bersani sarebbe un perfetto leader di un centrosinistra di chiara matrice socialdemocratica. Nel 1992.

[Il post prosegue per altre 11 pagine di Word (sì, l'ho scritto in Word, sono un romantico a Milano), peraltro senza figure. Quindi o vi fermate qui o vi sincerate di avere un sacco di tempo e di pazienza a vostra disposizione. Se siete dei don Ferrante e il tempo non vi manca, proseguite oltre.]Oppure scaricate il post in PDF e ve lo leggete come più vi aggrada, qui.

Il problema è che vent’anni dopo il 1992, il centrosinistra e soprattutto il paese non hanno bisogno di una coalizione di scuola socialisteggiante, pur avendo bisogno di sinistra.
E le Primarie – e in generale le elezioni – non sono un contest in cui voti il candidato che ti assomiglia di più o ti sta più simpatico, ma quelle in cui il buon senso impone di votare chi propone le soluzioni migliori per risolvere i problemi di tutti.
;
Questo è un post in cui provo a spiegare perché alle Primarie voterò per Matteo Renzi e per le idee e il modello di sinistra e di paese di cui si fa promotore.
Provo a ragionare pubblicamente e a raccontarmi, perché confesso che per un bersaniano naturale come me la scelta non è stata facile e prevede un bel po’ di passaggi, che tra l’altro hanno a che fare con boh “quel sentimento di percezione che si ha di se stessi e non si abbandona mai” (quasi di certo c’è una parola tedesca che lo riassume)
Ecco, quindi, un po’ di punti su cui mi sono trovato a riflettere. Iniziano tutti, tranne le conclusioni, con “Nel 2012”, perché il punto è anche un po’ quello.

1 – GUSTOSE RICETTE D’ALTRI TEMPI
Nel 2012 la ricetta socialdemocratica dura, pura e indiscussa, non funziona più. E non lo fa dalla fine del secolo scorso. Se su questa ricetta mettiamo la salsa della contiguità con la CGIL, il piatto diventa immangiabile.
E non lo dico io, che ho studi economici limitati a qualche esame all’Università e sono scarso in matematica: lo dicono i fatti.


Faccio sempre il solito esempio (l’avrete già letto in qualche mio commento in giro o ve l’avrò direttamente fatto dal vivo, se siete sfortunati).
Prendete la vostra rubrica telefonica. Se è su carta, lasciate perdere e votate direttamente Bersani. Se è su uno smartphone, prendete nota di quanti tra i vostri amici sono assunti a tempo indeterminato.
Quasi nessuno, vero? Adesso contate quanti di questi assunti a tempo indeterminato lavorano nel pubblico impiego. Si contano sulle dita di una mano, di solito.

Ecco, la crisi del modello proposto dalla componente catto-socialisteggiante del PD e dalla CGIL è tutta lì. Lavorano, sicuramente animati da buone intenzioni, per garantire e difendere quelli che non stanno sulla vostra rubrica. Gente che, giustamente, è già garantita di suo. Ma voi (noi) no.
La gente come me (e come voi), insomma, per quel pezzo rilevante di sinistra NON ESISTE. Ed è difficile spiegare alla CGIL che le partite IVA piccole sono i nuovi sfruttati che fanno lavori para-dipendenti senza alcuna garanzia e non sono il nemico evasore.


Questa cosa va cambiata. E va fatto perché in questo momento la CGIL è, ai miei occhi, uno dei più grandi freni all’innovazione e al progresso in Italia. Non per cattiveria, ma perché proprio non ce la fa a capire. Come certe nonne adorabili ma un po’ rintronate.
Perché – fateci caso – se sommiamo le nostre rubriche telefoniche piene di tutto fuorché assunti, viene fuori una generazione. La nostra. Dimenticati. Lost.
Con la sua assurda pretesa di applicare vecchi concetti a una società, un mercato e a gente nuovi, il sindacato fa danni. O, come capita più spesso, si gira dall’altra parte e non ci vede.


Cambiare questa cosa non significa dimenticarsi i diritti dei lavoratori e tutte le sacrosante garanzie che in anni di battaglie giuste sono state conquistate.
Credo, semplicemente, che non sia una bestemmia porsi il problema di aggiornare la visione, di adattarsi ai nuovi tempi, di modernizzare le modalità di tutela del lavoro e dei lavoratori.
Magari capendo che i termini della questione non sono più quelli di un tempo (che era un tempo in cui a 18 anni facevi un lavoro e andavi in pensione avendo fatto sempre lo stesso lavoro nello stesso posto: ditemi chi fa, tra i nostri coetanei, una vita così, ora).


Ecco, Matteo Renzi propone di cambiare questa visione. E suggerisce una soluzione di sinistra (non lo dico io: lo dicono tutti gli analisti e perfino Wikipedia) che si chiama Flexicurity.
Se avete voglia di studiarvela, non è una cosa difficile da capire. In compenso è uno dei motivi per cui i lavoratori danesi (che è dove la Flexicurity si è attuata) sono tra i più felici al mondo, nonostante ore e ore di esposizione al pop locale.
Normalmente quando parlo di Flexicurity qualcuno mi risponde “eh, sì, ma noi non siamo mica la Danimarca”. Questa è una classica risposta “perdentista” (il copyright è di Aldo Cernuto, con cui ho il piacere di lavorare) tipica italiana e, odio dirlo, caratteristica di certa sinistra conservatrice.

Ovvio che non siamo la Danimarca. Ma nulla ci impedisce, se non la nostra inerzia fatalista e un certo timore che il nostro paese dia i natali a una nuova Whigfield, di provare ad assomigliarle.
D’altronde lo scopo della politica bella è quello di tracciare scenari lunghi e ambiziosi. Perfino utopie, va.

Il piccolo cabotaggio mi è venuto a noia, perché non produce risultati credibili e fa proliferare gli Scilipoti.
Credo, invece, che in Italia ci sia bisogno di quello che in anglo-milanese fighetto si chiama “paradigm shift”. Cioè, provare a rivoluzionare un ambito, senza distruggerlo, ma cambiandolo con forza con criteri scientifici, spostando letteralmente più in là la soglia tra problemi e soluzioni e adottando un punto di vista inedito.

Magari facciamo una sperimentazione limitata nello spazio e nel tempo, magari mettiamo a confronto materialmente due modelli, magari ci arriviamo col tempo, visto che qui nessuno vuole tutto e subito. Ma proviamoci, dannazione!
E facciamola tutta, non un pezzo (perché qui abbiamo l’abitudine di fare le riforme sul lavoro approvando prima le parti sfavorevoli ai lavoratori e poi darci malati quando bisogna approvare quelle favorevoli).

Rassegnarsi al “qui non si può fare” mentre altrove si può e funziona è una cosa che mi urta da morire. E sono di sinistra perché, come il bambino col pallone in “Comici spaventati guerrieri” non rinuncio a cercare ilquisipuò.


2 – UN PARTITO ZIMBELLO
Nel 2012, a pochi anni dalla sua nascita, il Partito Democratico italiano è una barzelletta vivente. Vorrei dire cose più lusinghiere del partito che ragionevolmente voterò, ma non riesco a produrre di meglio.
Diciamoci la verità: il PD così com’è non piace a nessuno. E nel caso migliore questa condizione genera rabbia, che almeno è una reazione che nasce dal dispiacere. Nei casi peggiori la gente fa spallucce, gira gli occhi al cielo. O ride, direttamente.
La quantità di persone che non riescono a prendere sul serio il PD, considerato nei casi migliori una maionese impazzita (cioè una cosa immangiabile che nasce da ingredienti buoni, ma deve diventare qualcos’altro o la si butta via), è impressionante.

Perché non funziona? Perché al Lingotto ci eravamo detti che avremmo fatto un partito a vocazione maggioritaria, con altri riferimenti politici e culturali che non fossero gli epigoni del PCI e della DC.

Ora guardate il gruppo dirigente del partito. Esatto: ex PCI + ex DC. Che sorpresa.
La verità è che il PD, dimenticata la giornata al Lingotto, è diventato una sorta di compromesso storico tascabile che scontenta tutti. La solita medietà che nasce dall’assemblaggio di due cose vecchie spacciate per nuove: alla fine si incollano sempre le due metà peggiori.



Ora, non sembri che ci sia ingratitudine verso le due grandi culture politiche che hanno caratterizzato il Novecento (in verità sono grato solo a una delle due e peraltro con riserve). Ma, appunto, hanno caratterizzato il Novecento, che – cari compagni della mozione “Novecento”- è finito!
Ora la società è cambiata e pure il secolo non è più lo stesso. E quelle due chiese lì, peraltro strutturalmente poco propense a mettersi in discussione e aggiornarsi, non raccontano più il mondo in modo giusto. E se analizzano male il presente e i suoi problemi, figuriamoci quanto riescono a proporre soluzioni efficaci per il futuro.

I problemi non finiscono qui. C’è anche il fatto che negli ultimi anni la pratica politica quotidiana del centrosinistra manca di capacità di produrre visioni, orizzonti, idee. E il PD non ha funzionato nemmeno bene nel ruolo di oppositore, visto che quello di propositore non gli è congeniale.


Nel corso degli anni mi sono passati sotto il naso tutti i fallimenti, i no show, i tentennamenti , gli imbarazzi e le scelte sbagliate di un partito che sa benissimo da quali antiche parti è composto ma non sa dove vuole andare in futuro e si preoccupa più di non scontentare nessuno che di fare politica.
Faccio giusto qualche esempio:
- ciance infinite sulle unioni di fatto (qualche genio, addirittura, fece scrivere la proposta di legge alla Bindi) che hanno prodotto il nulla e lasciato praterie alla destra clericofascista

nessuna legge sul conflitto d’interessi, a fronte del conflitto d’interessi più grande al mondo
nessuna proposta innovativa sul mercato del lavoro se non difendere la formalità dell’esistente (è vero che il PD è il partito dalla parte dei lavoratori: peccato che il problema di quest’epoca sia diventare lavoratori)
timidi accenni di dialettica sul fine-vita, sui diritti della persona, ecc. subito auto-cassati per non spiacere al clericofascista di turno, peraltro imbarcato direttamente nel partito o tenuto da conto come amatissimo alleato ricattante
nessuna iniziativa sul tema (per me secondario, ma importante a livello comunicativo) dei costi e dei privilegi della politica, se non tardiva, derivativa e tirata per i capelli
tentennamenti (e poi tifo spudorato per i listini bloccati) sull’introduzione delle preferenze alle politiche
carenza d’iniziativa riguardo agli ultimi referendum (quelli sull’acqua pubblica, ecc.), con un esempio perfetto di non-schieramento
indisciplina e lassismo nell’opposizione a Berlusconi, quando governava (e tassi d’assenteismo inaccettabili tra i parlamentari)
linea ondivaga, per cui un giorno fai la foto di Vasto con Vendola e Di Pietro, poi fai un’alleanza strutturale in Sicilia con l’UDC (cioè, l’UDC siciliano, una realtà al cui confronto la Spectre è la Caritas), poi fai quasi una federazione con il partito di Vendola e corteggi l’UDC mentre Vendola lo sfancula e tu ti trovi in mezzo al fuoco incrociato di due partiti che in un paese civile non dovrebbero esistere.

Ora i casi sono due. O cambiamo radicalmente il partito e ne facciamo qualcosa di nuovo. Oppure continuiamo a regalargli un voto di risulta, più identitario e di posizionamento che politicamente motivato, fino a quando avremo pietà per noi stessi. Finendo chissà dove. Forse in un posto peggiore. Forse a casa a fare i rancorosi, come tanti.


Si respira incertezza, di questi tempi. Lo so. Ma sono certo di una cosa: votare per la coalizione di ex boiardi PCI ed ex boiardi DC che sostiene il povero Bersani significa affermare col voto che il PD così com’è ci piace da morire e che tutto quello che è stato fatto finora ci è sembrato inappuntabile, giustissimo.
Insomma, chi vota Bersani esprime un inequivocabile “continuate così” al PD.
E’ giusto che tutti lo sappiate.



3 – DIMMI CON CHI VAI E TI DIRO’ CHE NON GOVERNI

Nel 2012 la prospettiva di avere un partito socialdemocratico di massa che si allea con un partito di estrema sinistra fino a poco prima extraparlamentare (oltre che guidato da un ex parlamentare che non ebbe problemi a far cadere il migliore – nonché unico credibile – governo di centrosinistra che l’Italia abbia mai avuto, cioè il primo Prodi) mi lascia perplesso.

[Ok, chi prendo in giro. Allearci con Vendola e rifare il PCI è una figata incredibile. E tutti i miei ormoni da sedicenne fanno la capriola da ore, dopo vent’anni di letargo. Però allora torna TUTTO indietro, eh. Torniamo a essere la quinta economia mondiale, torna l’URSS, il Toro torna a piazzarsi fisso nella parte alta della classifica di serie A e io torno adolescente e mi arricchisco col calcioscommesse clandestino, tanto so tutti i risultati da allora a oggi (note to self: nel 1999 compra azioni Tiscali ma poi vendi prima dell’estate) e non mi rifidanzo con la fidanzatina di allora.]

Battute a parte, la prospettiva del PD “storico” è la solita: fare un partito profondamente identitario, cioè un partito che viene votato da gente che si definisce di sinistra, che è intimamente di sinistra e che fa del suo essere di sinistra una questione esistenziale. Non so se ho scritto “sinistra” un numero di volte sufficiente nel periodo prima di questo, ma spero di aver reso l’idea.

Chiariamoci: là fuori è pieno di gente che è intimamente di sinistra. Gente che se perde la memoria, la prima cosa che ricorda quando la recupera è “sono un comunista”.
Sono uno di quelli pure io, uno di quelli che ai funerali dei nonnetti dell’ANPI si commuove se suonano l’Internazionale, che prova un certo brivido di appartenenza a chiamarsi “compagno” tra compagni e che sa tutte le canzoni di Guccini a memoria (testo e accordi, eh) nonostante abbia fatto di tutto per dimenticarsele.


Però quella percentuale di persone lì, ammesso che voti tutta per intero e che non sia morta nel corso degli anni, in Italia ammonta al massimo al 34% dell’elettorato.
Abbiamo una sorta di sindrome del 34%, è una storia lunga. Cioè il massimo storico raggiunto dal PCI in un’elezione a carattere nazionale.
Giusto un punto in più di quanto prese il PD al suo esordio, nonostante Veltroni leggesse lacrimevoli missive di bambini moribondi a ogni comizio.


Se vogliamo che il centrosinistra conti qualcosa in più di un misero terzo dell’elettorato, dobbiamo raccogliere i voti di chi non si definisce di sinistra ma è disposto a concordare con le proposte del PD, con le sue idee e perfino i suoi valori.

Là fuori è pieno di gente così, gente di buonsenso, civile, integra, che crede nei valori giusti, ecc.
Magari persone che qualche volta hanno votato a sinistra, altre no, altre sono state a casa. E che non sono di sinistra, nel senso che non gli interessa definirsi secondo quel parametro o semplicemente hanno altri stili di vita.

L’avrò scritto in decine di post, quindi vi risparmio la solfa, ma la questione per cui se voti un partito tu “sei” di quel partito e quella scelta caratterizzerà la tua vita, il tuo modo di pensare, essere e concepire il mondo è una sonora. e macroscopica pippa mentale di noi vetero di sinistra.
Il fatto che noi siamo così non implica che il resto del mondo lo sia. Ma, abituati così tanto a fissarci intensamente l’ombelico, non ce ne siamo mai accorti.
Ed è dovuto arrivare uno “straniero” rispetto alle nostre identità per svegliarci dall’ipnosi causataci dai nostri interessantissimi ombelichi identitari.
Qualcuno è lì che reclama ancora 5 minuti di sonno ombelicale, ma è tempo di svegliarsi e andare.

Andare dove? Dove ci eravamo detti che saremmo andati, cioè verso la famosa “vocazione maggioritaria”. Ovvero, per tradurlo dal politichese, verso un partitone che prende almeno il 40% dei voti, in virtù della sua capacità di aggregare l’elettorato attorno a precise parole d’ordine programmatiche, non basandosi più su parametri identitari, su posizionamenti politici novecenteschi e così via.
Su questo Renzi è imbattibile. Qualsiasi sondaggio (e il buonsenso, chiacchierando in giro) conferma che, essendo la prima figura di spicco espressa dal centrosinistra a non avere forti caratteri identitari novecenteschi, è in grado di far votare il programma del centrosinistra a gente che non si definisce di sinistra. Perfino da gente che in passato ha votato dall’altra parte.
E non lo fa alterando la natura programmatica del centrosinistra (anzi, dal campo bersaniano lamentano “ci copia il programma”, dimenticando che Renzi e Bersani sono nello stesso partito), ma riuscendo a comunicare con quella parte dell’elettorato che cambia canale appena sente in tv l’ampollosa prosa sinistrese e considera una tortura l’ascolto di una canzone intera di Guccini.

Il partito a vocazione maggioritaria, cioè, è quello che compete per togliere voti ai potenziali alleati.
Il partito minoritario immaginato dal campo bersaniano è sempre il solito: quello che si ritira nell’orticello identitario, lasciando libere praterie agli alleati che, casomai si andasse al governo, avranno peso e importanza tali da compiere ricatti a raffica.
E visto che abbiamo già subito l’umiliazione di farci ricattare dagli estremisti di sinistra e di centro nelle due incolori esperienze di governo nazionale di centrosinistra, credo sia giusto dire basta. O volete un altro Prodi-bis in cui ogni mattina ci svegliavamo con l’ansia che il senatore Pallaro avesse perso l’aereo da Buenos Aires?


L’ipotesi di Renzi, dichiarata a gran voce negli ultimi giorni, di fare un PD a vocazione maggioritaria che non si allea con i clericofascisti familisti dell’UDC e taglia i ponti con le cariatidi anticapitaliste fricchettone di SEL e punta al 40% e oltre per me è la migliore disponibile.
Sottolineo la parola “disponibile”, perché si fa quel che si può. E ragionevolmente il PD da solo non avrà i numeri per governare.

Li avrà, forse, se fa un’ammucchiata che imbarca cani e porci da Diliberto a Casini. Sarà il governo più ricattabile e debole del mondo, che tra litigiosità e incapacità di decidere spalancherà entro pochi mesi le porte al trionfo berlusconiano-grillino.
Io l’ammucchiata non la voglio più. E trovo stupido che al PD non si accorgano che è la scelta peggiore. Peggio dell’opposizione.


Da soli, con un partito forte, le chance di governare in solitaria sono pochissime (dipendono molto dalla legge elettorale).
In compenso, visto che tutto ci porta verso una grande coalizione Monti-bis, un PD al 40% potrebbe contare molto di più e far fare a Monti le cose buone che non ha fatto, visto la brutta maggioranza (a guida PDL) che lo supporta.



4 – IL PIU’ GROSSO PROBLEMA DEI RENZIANI E’ RENZI. IL RENZI PERCEPITO A PELLE
Nel 2012 non riesco più, dopo vent’anni di Berlusconi, a prendere sul serio chi oppone sensazioni personali a ragionamenti politici.
Quelli che “Renzi mi sta antipatico”, “Renzi ha una faccia che non mi piace”, “Renzi è un furbetto”, ecc. non si rendono conto che stanno percorrendo il lato B della concezione carismatica della politica. Una concezione su cui Berlusconi ha fondato vent’anni di vittorie elettorali.

Il lusso delle scelte d’impulso, la velleità di affidarsi all’intuito, la moda dannosa di giudicare “a naso” hanno fatto danni politici mostruosi. E anche danni altrove, ma restiamo nel campo politico.
Tra l’altro se l’intuito delle masse fosse davvero una cosa buona, ci saremmo risparmiati un sacco di problemi in passato. Ma dai tempi di “Barabba, Barabba!” diffido dei giudizi “a pelle” della gente.
E, non offendetevi, l’espressione “intuito politico” da parte dell’elettorato italiano (sì, anche tu) è un ossimoro. Fatevene una ragione.

Fatte tutte queste premesse doverose, capisco il disagio di molti. Di molti come me.

Sì, perché quel tizio lì che a 37 anni vuole fare il capo può effettivamente stare sull’anima.
Ma, di nuovo, il problema siamo noi. Ci sta sull’anima per un sacco di motivi sbagliati.


Il più emergente dice “a 37 anni non sei nessuno”, “chi ti credi di essere”, “ne devi mangiare di Ovomaltina per essere credibile con la Merkel, e così via.

Ecco, questo è un ragionamento da vecchi.
Ma vecchi brutti, vecchi dentro. Perché a 37 anni, nei paesi civilizzati, non solo sei pronto a tutto, ma sei pure “un po’ in ritardo.

E se non ci ribelliamo noi di sinistra alla dittatura della vecchiezza, per cui c’è gente che fa la prima esperienza di lavoro seria ben dopo i 30 anni di età, allora siamo spacciati.
Siamo una gerontocrazia mentale, oltre che de facto.
E ci tengo a ricordare a tutti che a 27 anni Jim Morrison era già Jim Morrison e Bergomi ha vinto il suo primo mondiale a 18 anni, con due baffi da uomo.

Siamo così abituati al fatto che il giovane (e l’Italia è l’unico posto dove a 37 anni sei giovane) è uno sfigato da considerare spavalderia la legittima aspirazione a contare di più. Dove contare di più non significa conseguire alla soglia dei quarant’anni il primo contratto di lavoro non semestrale, ma governare il paese.

Il secondo è che Renzi “non è uno di noi”, non parla come noi, delude le nostre aspettative formali, ecc. Cosa profondamente vera.
Mi chiedo solo se è sano essere così presuntuosi da pensare che ciò che non ci assomiglia sia automaticamente il male.
Anzi, fatemi rigirare il concetto. Dopo anni a votare ed eleggere gente che alla fine non ci è piaciuta tantissimo, ma ci assomigliava in modo impressionante, non è forse il caso di chiederci se il problema siamo noi?
Pecchiamo di superbia, talvolta. E ancora più spesso di chiusura mentale.
E ci ritroviamo a pensare che esista una sola via per il bene: la nostra.
Però, alla millesima dimostrazione che non è proprio così, forse potrebbe essere intelligente chiedersi se è possibile davvero un’altra via, peraltro affine a quella che, storicamente e pervicacemente, abbiamo seguito.


Non si tratta di uno spostamento epocale, cioè di svegliarci una mattina, tradire gli affetti e iniziare a tifare per i cattivi, ma di riconoscere che lo spirito di sinistra può prendere altre forme, magari più efficaci e di successo e capaci di fare presa su chi non è come noi.
Certo, accettare questo implica automaticamente dirci che evidentemente non eravamo il migliore dei mondi possibili. Abbiamo il coraggio di farlo?



Il terzo è una sorta di contenitore e ha a che fare con il complottismo paranoico tipico delle comunità chiuse. E quindi a seconda dei casi Renzi è di destra, Renzi è un democristiano, Renzi è come Berlusconi, Renzi è come Blair, eccetera.
Tutte accuse generiche, fatte a monte, e dipendenti da un solo motivo: la diversità di Renzi rispetto a quelli a cui siamo abituati.
Prese una a una, le accuse crollano con un soffio.



Renzi è di destra? Leggi il programma e scopri che non lo è affatto. E tra l’altro la dicotomia destra-sinistra su cui si basa questa accusa è scaduta da una quindicina d’anni e inizia a puzzare in frigo.
Renzi è un democristiano? Sì, la sua esperienza politica “prima” è stata nei popolari, quelli post-dc che ci piacevano tanto. Poi ha fatto altro, a sinistra, per esempio due esperienze amministrative di alto livello, una delle quali in una specie di piccolo ministero degli Esteri e del Turismo che si chiama Città di Firenze.


E come uomo della sinistra ci è andato benissimo, senza battere ciglio, per ben due elezioni.
Mi chiedo che problemi possa dare a chi ha votato Prodi, democristiano per davvero.


Renzi è come Berlusconi? Sì, è come Berlusconi nella capacità di comunicare, nel dominio dei media, nella capacità di semplificare un messaggio e renderlo comprensibile a tutti e non solo ai laureati con lode in scienze politiche e lunga esperienza di militanza attiva. Per il resto cosa ha da spartire con Berlsconi, visto che la sua forza comunicativa è il peggiore nemico del grande seduttore che ha abusato di questo paese per vent’anni?


Renzi è come Blair? A parte il fatto che essere come Blair non sarebbe necessariamente un male, se in Italia manca del tutto l’esperienza di una sinistra in grado di uscire dal proprio recinto ideologico (esclusi pochi casi, tipo Chiamparino), forse è il caso di recuperare.
E in ogni caso se di tutta l’esperienza blairiana ricordiamo solo la deriva finale, non facciamo un buon servizio alla verità. La svolta extraideologica è un passaggio obbligato della maturazione della sinistra. Arriviamo con comodo dopo il Regno Unito, ma forse è il caso che prima o poi ci adeguiamo.


5 – QUINDI?


Quindi dovrei fare quella che in comunicazione si chiama call-to-action, cioè invitare la gente a fare qualcosa che ritengo giusto o utile.
In verità non me la sento, perché mi piacerebbe che questa lunga prolusione fosse una sorta di call-to-thought.
Pensateci, avete ancora qualche giorno.


Da un lato c’è l’occasione di cambiare la sinistra e forse il paese, con idee nuove (e con alcune idee vecchie e “nostre” per cui continuiamo a lottare), una visione realistica e di buonsenso e un investimento sul potenziale di un leader e di una classe dirigente che scalpita, tenuta lontana dal potere per troppo tempo da boiardi di partito.
C’è un programma esteso, ragionevole e pieno di novità a cui (limite mio, ma piacevole sorpresa) non avevo nemmeno pensato, c’è l’emergere sulla scena politica di persone che fino a oggi si erano tenute lontane da comizi e affini ma hanno trovato una inedita voglia di partecipare, c’è un leader a sinistra che finalmente sa comunicare, padroneggia i linguaggi, le piattaforme, gli stili.

E c’è l’opportunità di provare a fare qualcosa di diverso in un contesto sicuro, perché il segretario resta Bersani e la sinistra siamo tutti noi, capacissimi di cambiare rotta.
Alla peggio (ma ho valide ragioni per considerarlo uno scenario improbabile, però ci tenevo a rassicurarti, nonno), se ci accorgiamo che è stato un errore, ci sono tutte le garanzie per ripartire dalla casella precedente.

L’errore è aver paura di osare. E l’errore è ancora più grave è aver creato questo clima in cui Renzi è il capellone e il PD fa la parte delle anziane anni Sessanta, scandalizzate.

Dall’altra, escluso il segretario che è una brava persona e sarebbe un ottimo ministro dell’Economia, ci sono i boiardi di partito, le solite facce della solita sinistra con le solite parole d’ordine, i soliti slogan e niente di nuovo se non un “ora tocca a noi” reclamato più per solite questioni di turno che di merito. C’è il solito, per capirci.

Non vi dico di scegliere Renzi subito. Non fatelo, almeno non fatelo dopo aver letto questo post. Leggete il programma, capite se e quanto vi piace. E leggetevi i programmi degli altri e fate due conti con la realtà.
Ma, mi raccomando, non scegliete (mai più) a pelle. Nemmeno se a pelle vi viene di votare per Renzi. Impariamo dagli errori.


Se sceglierete l’idea che la sinistra in Italia faccia un salto di qualità rispetto al solito laburismo ricucinato, arrivi a pesare quasi la metà dell’elettorato e la smetta di farsi ricattare da alleati micragnosi con idee e persone orribili (sto parlando di UDC e SEL), credo farete bene al paese e anche a voi stessi (lo so, sembra una lettera di una catena di Sant’Antonio, questa parte).

Se sceglierete ancora la sicurezza e la disciplina (di partito) per dire alla sinistra di continuare così dopo vent’anni di successi politici ed elettorali straordinari, contenti voi.

Segnatevi, però, questo post . Perché nel caso lo tirerò fuori quando ci accorgeremo troppo tardi che il PD sta facendo la parte della rana bollita lentamente (la metafora è di Alessandra Farabegoli) e che la sinistra va scemando piano piano a favore di chissà cosa.


Siamo di nuovo a una svolta, come nel 1994. La crisi si fa sentire e non è solo una questione economica, è un fatto di sfiducia complessiva, di stanchezza, di esasperazioni che si sommano e che meriterebbero altri tempi, altre garanzie, perfino altre gentilezze che non abbiamo potuto preparare.
Nel 1994 ci affossò un nemico inedito, con elmi e armi nuove che non sapevamo esistessero e poco dopo non sapevamo usare. Perdemmo male e non ci siamo del tutto ripresi da allora.


Ora abbiamo l’occasione per dare una svolta, e forse per imprimere un segno di dignità da parte della nostra generazione via via sventurata, inibita e viziata.
Scegliere Renzi non è una risposta definitiva, lo sappiamo tutti, lo sa e lo ha detto anche lui stesso. Però è il tentativo più forte, più credibile, più affascinante di rinnovare la sinistra, proporsi con idee nuove al paese, provare davvero a cambiare le cose. E cambiare significa anche cambiare la sinistra. E pure cambiare noi.

Non so se sarà una battaglia che vinceremo. Ma non mi perdonerei mai di non averla combattuta, nel 2012.

Chi sono

Qualcuno, di cui non ho molta stima, mi chiama "Architetto di Dio". La cosa, però, mi piace. Dicono che sono un architetto eclettico ed un pò anomalo. Il mio lavoro è a metà tra i restauri ed il turismo. Sono cooperatore salesiano e amo Don Bosco. Sono sposato con Cinzia che amo. Abbiamo tre figli, Gabriele Samuele e Gaia. Se vuoi scrivermi ecco la mail architettodidio@gmail.com


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"Il senso di inquietudine mi insegue sempre e quando mi pare di aver colto una certezza ricado nell'assoluto smarrimento. Mi chiedo: sono al posto giusto, al momento giusto? Boh! che casino è la VITA e quanto doloroso è questo cammino di scoperta dell'Assoluto che c'è in noi!"

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