venerdì 17 maggio 2013

Il Ciclo dei Vinti del fotografo Mario Noto L’autre, l’eretico, lo straniero

di Concetto Prestifilippo

"I personaggi di Mario Noto non hanno nazionalità. Non hanno nulla. Sono uomini sventurati. Sono l’insulto al falso mito di progresso. Sono brandelli di anime. Hanno lo stesso sguardo spento del generale Gabriel Feraud. Battuti, sconfitti, piegati, sgominati, dimenticati, ignorati, oscuri".

“Parigi, rue du Coq d'Or, le sette del mattino. Una sequela di urla strozzate e furibonde dalla strada. Madame Monce, la padrona dell'alberghetto di fronte al mio, era uscita sul marciapiede per apostrofare una pensionante del terzo piano. Aveva i piedi nudi infilati negli zoccoli e i capelli grigi spioventi (…)”.
George Orwell, Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933)
C’è un odore legato alla povertà. È un profumo indicibile. Un afrore dolciastro. È il fetore del fumo di bracieri sgangherati. È il lezzo di minestroni che ingravida i muri degli orfanotrofi. È il tanfo umido del salnitro. È la sozzura degli abiti stazzonati. È la zaffata del sudore.

C’è, soprattutto, uno stato legato alla povertà: il freddo. Il gelo è povertà. Carni intirizzite dal freddo. Coperte, pastrani che intabarrano corpi sconfitti, raggomitolati, ingrottati, rintanati, rannicchiati in un letto. Il gelo degli sguardi bassi, braccia conserte.

L’odore della povertà e un freddo gelido sembrano emanare le immagini in bianco e nero di Mario Noto. Sequenze di un esercito di invisibili, disertori, renitenti, vinti, eccentrici. Un carosello balzacchiano incredibile. Personaggi meravigliosi. Esistenze laide, spaventose, tristi. Un archivio umano bizzarro popola gli scatti del fotografo siciliano. Volti caravaggeschi solcati da rughe profonde. Visi che hanno subito rasoiate ferali. Tratteggia la bellezza malinconica di stravaganti e bislacchi. Sorridono con pudore. Celano dentature che speravamo confinate nelle pagine Dickens, di Caldwel, nei dipinti di Brueghel, nei quadri di Bosch, nelle incisione di Goya. Speravamo.
Potrebbero chiamarsi: Bastianazzo,‘Ntoni, Mena, Maruzza, Lia, Nunziata. Forse: Valjean, Myriel, Javert, Fantine, Cosette, Marius. Questi personaggi però sono veri. Maledettamente veri. Ancor più del vero. Popolano non luoghi. Periferie pasoliniane. Stazzoni ottocenteschi. Slum londinesi. Bidonvilles sudafricane. Favelas brasiliane. Bassi napoletani. Catoi palermitani.
Il reportage fotografico di Mario Noto, ha lo stesso valore eversivo delle indagini sociologiche del secolo scorso. Come quelle firmate da Danilo Dolci, Goffredo Fofi, Nuto Revelli. L’impegno è quello di dare voce ai “Senza storia”. Censire i dimenticati di sempre. È questo il Cantico fotografico dei diseredati. Fotogrammi che compongono un moderno Ciclo dei Vinti. Sono questi i volti dei briganti crocifissi al fianco di Gesù. Sono questi i sorrisi tristi dei viandanti, dei migranti, degli extra-vaganti, degli stranieri. È questo il paradigma de l’autre, l’altro, lo straniero che approda malfermo sulle coste della Grande Isola. Guadagna il mare siciliano, quello degli approdi e delle fughe. Gli attracchi delle disperazioni contemporanee. Fuggiaschi, stranieri, irregolari, profughi che guadagnano, a rischio della vita, nell’indifferenza più laida, le coste della Sicilia.
I personaggi di Mario Noto non hanno nazionalità. Non hanno nulla. Sono uomini sventurati. Sono l’insulto al falso mito di progresso. Sono brandelli di anime. Hanno lo stesso sguardo spento del generale Gabriel Feraud. Battuti, sconfitti, piegati, sgominati, dimenticati, ignorati, oscuri.
Le inquadrature dei ritratti sono volutamente surreali, distorte, sbilenche, spietate, crudeli, feroci. Immagini violente che saettano come una scudisciata. Non lasciano indifferenti. Sciabolate fotografiche che squarciano vite in bianco e nero. Non c’è colore. Non può esserci. Scene grottesche, strambe come in certe sequenze di Ciprì e Maresco. I fotogrammi di Noto non confinano artifici, immortalano realtà rarefatte.
Viene voglia di rapirli tutti questi protagonisti eccentrici. Portarli in salvo come in un film di De Sica. Imbarcarli nottetempo su una tartana. Volgere la prua verso un approdo mirabolante di orizzonti perduti. Impregnarli di fragranze lievi. Avvolgerli in broccati e sete orientali. Ammantarli di tepore. Illuminarli in sorrisi pieni.

"Nella fede morirono, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, e ne furono convinti e li accolsero, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra" (Ebr. 11:13).

Chi sono

Qualcuno, di cui non ho molta stima, mi chiama "Architetto di Dio". La cosa, però, mi piace. Dicono che sono un architetto eclettico ed un pò anomalo. Il mio lavoro è a metà tra i restauri ed il turismo. Sono cooperatore salesiano e amo Don Bosco. Sono sposato con Cinzia che amo. Abbiamo tre figli, Gabriele Samuele e Gaia. Se vuoi scrivermi ecco la mail architettodidio@gmail.com


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"Il senso di inquietudine mi insegue sempre e quando mi pare di aver colto una certezza ricado nell'assoluto smarrimento. Mi chiedo: sono al posto giusto, al momento giusto? Boh! che casino è la VITA e quanto doloroso è questo cammino di scoperta dell'Assoluto che c'è in noi!"

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