LAMPEDUSA (Agrigento) - Europa è solo una parola vana davanti a questi 93 cadaveri uno in fila all’altro. Ogni discorso peloso, ogni razzismo dovrebbe tacere per sempre davanti al bambino che non avrà mai più un nome, coperto con una tovaglia della mensa degli aviatori, perché i sacchi blu e verdi per metterci dentro i corpi erano finiti.
L’hangar dell’Aeronautica militare è un edificio dalle pareti esterne di un azzurro intenso, quasi come il cielo di Lampedusa, che oggi inganna più di ogni altra volta. Dentro, appoggiati sul cemento grezzo dove sostano gli aerei in riparazione, ci sono decine di corpi senza vita. Sono gli «emersi», come li chiamano i soccorritori, che non ne avevano mai visti così tanti, e per la prima volta nella storia tragica di questa frontiera li hanno dovuti portare qui dal molo del porto nuovo dove non c’era più spazio.
«Annegati. Come gli altri, come sempre». Con il fungo schiumoso rappreso sulla bocca, un impasto di acqua e sangue dai polmoni. È così che li trovano. Sono ormai vent’anni che Pietro Bartoli aiuta i vivi e raccoglie i morti in quest’isola. Ma oggi il direttore della guardia medica, faccia bruciata dal sole e barba sfatta, è colpito dalla quantità. A un certo punto, racconta, sono entrate in porto cinque motovedette tutte insieme, tutte con la prua e le fiancate cariche di cadaveri impilati che quasi non si vedeva il resto della barca, e mentre avanzavano ne cadeva qualcuno in acqua, come legna da una carriola troppo carica. Certo, una cosa del genere non era mai accaduta neppure nel luogo che ormai è sinonimo di tragedie dell’immigrazione. «Ma questo non è un evento straordinario. È diverso solo nei numeri».
Adesso si parlerà molto della coperta che ha preso fuoco sulla nave, anch’essa senza nome come i suoi poveri passeggeri. Il mediatore culturale che all’ospedale fa da filtro con i tre ultimi naufraghi ricoverati sull’isola riferisce una versione uniforme nella sua banalità. Alle 4 del mattino i passeggeri sul ponte vedono all’orizzonte le luci dei pescherecci diretti verso sud. Loro li vedono ma non possono essere visti, avvolti come sono dall’oscurità di una carretta carica di esseri umani che procede a motori spenti, in silenzio e al buio per paura di essere fermata dalla Guardia costiera. Qualcuno dà fuoco a una coperta, cospargendola con il gasolio preso da una delle taniche incustodite sul ponte. Le fiamme si alzano, aggrediscono il legno della nave. Gettano altre coperte per spegnere, ma l’unico effetto è quello di generare un’altra vampata. Il panico porta tutti i migranti ad appoggiarsi sul lato sinistro per chiedere aiuto a quelle luci in lontananza. La nave si ribalta. Tutti gli altri, uomini donne e bambini da giorni stipati come sardine negli anfratti della stiva, muoiono senza neppure capire come è potuto succedere.
Ma la coperta è solo un pretesto, un modo di conferire crisma di eccezionalità a una tragedia normale, terribilmente normale nella sua prevedibilità, abnorme solo nella contabilità del lutto, degli emersi, i 93 corpi chiusi nell’hangar, nella notte saliranno a 114, due donne incinte all’ottavo o nono mese, quattro bambini tra i 2 e i 6 anni, che pure rappresentano un dato parziale dell’orrore. Là sotto, nella pancia della nave affondata tra il porto e Cala Croce, a quaranta metri di profondità, ce ne sono almeno altrettanti, i dispersi potrebbero essere più di duecento. Era chiaro fin dal mattino presto. Fin da quando l’Angela C, il peschereccio di Raffaele e Domenico Colapinto, ha issato a bordo il primo superstite. Sulla trentina, forse somalo. Parlava un buon italiano. «Ci ha detto che erano almeno 450, che la maggior parte era sulla nave. Ma quale nave, gli rispondevamo noi, che qui non c’è niente, siete da soli». Il naufrago non ha risposto. Si è messo insieme agli altri a tirare su gente, i suoi compagni di viaggio.
«Erano tutti coperti di gasolio, ci scivolavano dalle mani. Ho preso una donna e non sono riuscito a tenerla. Lei è caduta in acqua, io le dicevo aggrappati, aggrappati. Mi guardava e non diceva niente, era sfinita. Non ce la faceva neppure a restare a galla. L’ho vista scivolare giù così, senza un urlo, con quegli occhi che mi guardavano». Alle sette del mattino l’Angela C, nome della mamma dei fratelli Colapinto, è diretta verso il porto per sbarcare il pesce pescato nelle ultime ventiquattro ore, tanto è durata l’uscita in mare. La barca è piena. Vedono i primi sette naufraghi e pensano ai racconti degli amici al porto, che ci sono abituati, gli scafisti che lasciano i migranti vicino a riva e scappano. Domenico e Raffaele non ci sono abituati. L’inverno scorso la crisi li ha costretti a tornare a Lampedusa dopo trent’anni di mestiere a Rimini. Decidono di andare a vedere. Si avvicinano. E più avanzano più capiscono che non può essere «la solita cosa», perché c’è gente in mare a perdita d’occhio. «Noi abbiamo due scalette. Le gettiamo entrambe. Salite, urliamo, salite. Non si avvicina nessuno. Gridano in pochi. Gli altri, qualche gemito. In tanti non hanno più la forza di aprire bocca. Cominciamo a prenderli con i mezzi marinai, lanciando le corde di ormeggio».
Quello che dovrebbe essere il momento della speranza si rivela solo un’illusione, un velo che nasconde la realtà atroce di questo naufragio. «Man mano che ne tiravamo su uno, quello accanto colava a picco. Si lasciava andare, muto. Noi gridavamo di fare in fretta, di resistere, e quelli ci morivano davanti, scivolavano nell’acqua con gli occhi aperti. Uno scempio della vita umana». Francesco, il nipote dei Colapinto, dice che ne ha visto andare giù almeno venti, «con le mani alzate, come delle statue». Zio Domenico issa a bordo una donna che sembra morta, non respira. La adagiano a poppa, ma non hanno il tempo di guardarla, si rimettono al lavoro. Quando tornano, si accorgono che il petto si alza e si abbassa. Respira. Almeno lei è salva.
Dall’Angela C parte subito l’allarme alla Guardia costiera. «Lo sappiamo, stiamo uscendo», è la risposta. Tutti i ventuno pescherecci che erano in mare aperto vengono avvisati. Si dirigono alla ricerca della nave che non c’è più, in un punto imprecisato tra l’isolotto dei Conigli e Capo di Ponente, una fetta di mare enorme. Ormai si è fatto chiaro. Francesco Licciardi è l’ultimo della pattuglia. Vede piccole scie di nafta sul mare piatto. Decide di seguirle e fa rotta verso est. In quella direzione il gasolio diventa una macchia, poi una pozza. Fino a quando il sonar di bordo gli indica che a quaranta metri di profondità c’è qualcosa.
Quel relitto che troverà spazio tra gli altri custoditi nel museo a cielo aperto in fondo al porto di Lampedusa, adesso è un sudario sommerso che custodisce i corpi dei «sommersi», centinaia di altri poveracci, esseri umani che volevano un futuro migliore per i loro figli. Li seppelliranno nei cimiteri dei paesini intorno ad Agrigento, morti senza neppure diritto al loro vero nome, che nessuno verrà mai a piangere. I loro compagni, i salvati, sono chiusi nel Cie di Lampedusa, lugubre struttura nel punto più nascosto dell’isola, perché le cose brutte i turisti non le vogliono vedere. A sera incontriamo il mediatore culturale che li ha appena lasciati dietro quei rotoli di filo spinato. Gli chiediamo se conosce l’identità dei genitori di quei bambini, se sono sopravvissuti. Annuisce, poi scuote la testa. Un padre e una madre hanno dato quattro nomi diversi, per paura, per poterci almeno riprovare. Gli ultimi degli ultimi non hanno diritto alla pietà umana, neppure quando muoiono.