A dieci anni, quale scuola superiore sceglierai.
A tredici, se hai scelto la scuola superiore.
A quattordici, perchè non sei andato in quella scuola che era più adatta.
E in quale università andrai, a questo punto.
A diciotto anni, l'argomento università diventa un chiodo fisso.
A diciannove, complimenti per la scelta
(qualunque sia, anche se i consigli erano stati diversi).
Passati i vent'anni iniziano le domande sul lavoro.
A ventiquattro quelle sul matrimonio.
E' già ora. Dicono.
Passati i trent'anni,
se non hai lavoro e famiglia ti devi mettere la testa apposto.
E poi diventi troppo grande per avere dei figli.
Poi forse iniziano a lasciarti in pace.
A meno che non divorzi.
O perdi il lavoro.
Insomma, siamo un po' vittime di stereotipi.
Sarebbe meglio se cominciassimo a domandarci
quanti sorrisi abbiamo "rubato" questa mattina,
e quante mani abbiamo stretto,
quanti bambini (non nostri) abbiamo accolto tra le braccia
e quanti lavori (non retribuiti) abbiamo svolto per aiutare qualcuno.
Dovrebero chiederci se andiamo all'università
per sperimentare la vita "fuori casa"
o se qualcuno ci ha costretti,
forse perchè si aspetta che diventiamo
medici, dottori, ingegneri.
Dovrebbero chiederci se siamo felici del nostro lavoro
anche se è sottopagato, se lo facciamo con onestà
o se forse stiamo rubando a qualcuno.
Se lo abbiamo ottenuto senza scavalcare nessuno!
Dovrebbero chiederci quante volte ci siamo innamorati
e se abbiamo trovato l'amore della nostra vita.
Anche se per adesso non ci sposeremo.
Forse dovremmo capire
che la felicità non è la meta
(università, lavoro, matrimonio, ...)
ma il percorso.
Solo così potremmo comprendere
chi decide di fare il musicista
e non lavora nell'azienda di famiglia,
rifiutando soldi, consensi e sicurezza
per inseguire il sogno della propria vita,
e realizzare quello che sperava da piccolo
quando rispondeva alla domanda
"Cosa vuoi fare da grande?".