martedì 27 settembre 2011

Assemblea diocesana 2011. Le relazioni di Mons. Michele Pennisi e di Salvatore Martinez

ASSEMBLEA DIOCESANA  23 settembre 2011
RELAZIONE CONCLUSIVA
Carissimi confratelli, fratelli e sorelle,
Questa nostra assemblea   all’inizio del nuovo anno pastorale si svolge in continuità con il Convegno pastorale del 2007 su “questione antropologica e sfida educativa” e quello del 2009 su  “Chiesa comunione di persone. Da collaboratori a corresponsabili:il dono della relazione filiale e fraterna” .   Essa è in linea con la scelta pastorale dei Vescovi italiani per il decennio 2010-2020 espressa nel documento “Educare alla vita buona del Vangelo” ed in preparazione alla prossima Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi su “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”.




Ringrazio il parroco don Salvatore Zagarella per la sua cordiale ospitalità in questa aula ecclesiale, don Giuseppe Rabita per la sua relazione introduttiva e i suoi collaboratori che hanno preparato questo convegno la professoressa Giuseppina Sansone che ha preparato il documento preparatorio per questa assemblea su “L’itinerario educativo nella comunità ecclesiale:il senso teologico e le implicazioni pastorali” e che oggi è assente per gravi motivi familiari, il nostro condiocesano Salvatore Martinez Presidente nazionale del Rinnovamento  nello Spirito, che ci ha  parlato, con la passione ecclesiale dono dello Spirito Santo che lo caratterizza, su “la stagione aggregativa dei fedeli laici:identità e missione” . Ringrazio  coloro che ci hanno illustrato alcuni progetti formativi negli ambiti della catechesi, della carità, della pastorale scolastica e della pastorale giovanile con particolare riferimento alla formazione socio-politica.

  In questa relazione voglio soffermarmi sui soggetti e sull’itinerario della nostra pastorale diocesana centrata sull’educazione in vista di una nuova evangelizzazione.





1.     La «novità» della pedagogia di Gesù  «maestro»

E’ fondamentale innanzitutto metterci alla scuola di Gesù nostro Maestro e Salvatore per educarci alla vita buona del Vangelo.

Le domande che ci dobbiamo porre sono : “ Chi è Gesù per ciascuno di noi?” e «Come Gesù maestro ha inteso educare i suoi interlocutori?» .

 Per «interlocutori» intendiamo: a) le folle che hanno ricevuto l’annuncio del «vangelo del Regno» e hanno seguito Gesù lungo la sua missione; b) il gruppo dei discepoli/apostoli.

La funzione educativa di Gesù non  è delimitata alla semplice attività didattica, ma si sviluppa intorno a quella singolarissima strategia «formativa» dell’identità integrale del credente, che Gesù ha posto in essere nella sua missione terrena .

         Una domanda che dobbiamo porci è«dove sta  la novità o originalità di Gesù educatore?».

a)      La «novità» della pedagogia di Gesù «maestro» è la presenza della sua persona.  E’ lui  stesso la novità, per  cui le cose vecchie, dette da tutti e che lui stesso riprende, portano l’originalità della sua persona .

b)       In secondo luogo la novità della pedagogia di Gesù proviene dalla Pasqua di morte e risurrezione che esprime la qualità paradossale della pedagogia di Gesù e la sua identità di «maestro».

 Da una parte il suo darsi da fare per educare le persone sfocia nella morte che sigla un reale fallimento dal punto di vista umano (cf. Mc 14,50), come ad indicare la inadeguatezza del mezzo umano dell’educare per arrivare al fine proposto del Regno di Dio, tanto che sono stati due’male-educati’, come il ladrone (Lc 23.42-43) e il centurione  pagano romano (Mc 15,39) ad entrare nel Regno; e però la risurrezione che ne segue conferma il raggiungimento di tale fine.  In questo  modo si legittima la spinta educativa  di Gesù e nostra  quando si scopre che alla base della Pasqua, quale fattore decisivo per un esito vittorioso, sta l’amore del  Padre per l’uomo, amore che Gesù ha assunto pienamente . Solo l’amore di Dio riconosciuto e ricambiato educa efficacemente, sa cogliere le nostre fragilità, tentennamenti, ed anche fallimenti, ma ha fiducia nella’azione dello Spirito del Signore risorto. Si potrebbe di parlare della pedagogia  del grano che muore e che rinasce .



2.     La chiesa come madre e maestra e la sua missione evangelizzatrice ed educatrice

Se Dio ha educato il suo popolo, se Gesù Cristo si è presentato come il Maestro, anche la Chiesa seguendo Cristo «unico Signore e Maestro» (Mt 23,8),  è chiamata ad esercitare la sua funzione educatrice di Madre e Maestra, facendo tesoro nel suo cammino sotto la guida dello Spirito della  sapienza di Dio che educa il suo popolo in Cristo.

Il soggetto dell’evangelizzazione, che ha come scopo il risvegliare e accompagnare una risposta libera alla chiamata e al dono di Dio e il favorire e lo sviluppare l’incontro personale con Gesù Cristo, è la Chiesa tutta intera che si manifesta nelle chiese locali(L.15)

La Chiesa in tutte le sue articolazioni, quali le famiglie come chiese domestiche, le parrocchie, i gruppi, i movimenti, le associazioni, per farsi percepire  come la comunità del grande sì  all’uomo,  deve aiutare tutti ma in particolare i giovani  e accompagnarli quotidianamente nell'esperienza  dell’incontro e della sequela di Cristo per offrire un senso alla vita, attraverso il fascino della verità e della bellezza dell’incontro con Gesù Cristo.

La traiettoria dell’itinerario educativo della nostra comunità ecclesiale va  dall’esigenza di integrare la sacramentalizzazione con l’evangelizzazione, attraverso il rafforzamento della comunità cristiana come  comunione di persone che vivono in relazione con la santissima Trinità, con gli altri fratelli e sorelle  all’impegno per il bene comune nella società con la testimonianza della carità.

3.     C’è una stretta relazione tra l’evangelizzazione e l’educazione.

L’evangelizzazione che ha come oggetto la proposta, esplicita e tematica, del Vangelo del Signore, per sollecitare alla sua accoglienza, come unico e fondamentale evento di salvezza, comprende ” la predicazione, la catechesi, la liturgia, la vita sacramentale, la pietà popolare,la testimonianza dei vita dei cristiani”(EN 17,21,48ss).

 Ma perché il Vangelo sia accolto e diventi generatore di una vita nuova occorre porsi accanto alle persone, accompagnandole in un cammino  educativo di scoperta e di scelta, di approfondimento e di rielaborazione personale.

L’educazione ha come preoccupazione sostanziale e specifica la maturazione della persona nella società, attraverso la proposta di valori, il confronto con modelli e scelte di vita, la gestione equilibrata degli interessi personali e dei rapporti intersoggettivi.

I gesti e i riti tipici della vita cristiana sono per molti  insignificanti rispetto al significato complessivo dell’esistenza. In una cultura lontana e dissonante rispetto al Vangelo, diventa veramente impossibile vivere di fede, speranza e carità in modo autentico e integrato. E’ quindi indispensabile ricostruire un tessuto culturale orientato inizialmente e progressivamente orientabile secondo le logiche evangeliche. Proprio a questo livello si colloca la sfida educativa e culturale alla pastorale.

4.     Il fine dell’educazione cristiana e la sua destinazione al bene di tutti

La chiesa ha il dovere di occuparsi dell’educazione perché ha il dovere di occuparsi della vita in tutti i suoi ambiti

         Ma dobbiamo farci delle domande:

Come la chiesa deve dare il suo contributo alla sfida educativa?

                   I momenti formativi caratteristici della comunità cristiana sono paralleli ad una educazione integrale dell’uomo o ne determinano il cuore e ne rafforzano i processi?

Nel rispondere alla domanda sul fine del processo educativo bisogna superare un modo di impostare il problema dividendo il compito educativo a diversi livelli tra loro relativamente indipendenti. Secondo questa impostazione si pensa di educare prima l’uomo “naturale”,  poi il credente in Cristo e il discepolo impegnato nella sua figura vocazionale ed in questo modo si separa l’educazione  umana dalla pastorale.

Il primo dei due strati sarebbe di competenza della  sola ragione; per l’altro  sarebbe invece necessario il salto della fede.

Sono evidenti i rischi a cui andrebbe incontro un progetto educativo che si richiamasse in modo rigido a una tale impostazione del problema.

Il Concilio Vaticano II , pur riaffermando la relativa autonomia delle cosiddette realtà temporali e della ragione umana che le indaga e le ordina, afferma il primato della verità di Gesù in riferimento al pieno riconoscimento della verità dell’uomo .

Porre al centro del processo educativo in rapporto con  l’evangelizzazione la comunione con Cristo che è la via, la verità e la vita di ogni persona umana, vuol dire orientare tale processo alla centralità e alla realizzazione piena  della persona.

La giusta impostazione della “sfida” educativa richiede ai cristiani il riconoscimento che il fine del processo pedagogico è la verità dell’uomo in Cristo, in vista del quale è stato creato l’universo e in riferimento al quale ogni uomo, fin da prima della creazione del mondo, è “predestinato ad essere santo e immacolato nella carità” (Ef 1,4).

Obiettivo della pastorale, secondo Rinnovamento della Catechesi(DB), è il raggiungimento dell’integrazione fede-vita. Integrazione tra la fede e la vita significa riorganizzazione della personalità attorno a Gesù Cristo e al suo messaggio, testimoniato nella comunità ecclesiale attuale, riorganizzazione realizzata in modo da considerare Gesù Cristo il «determinante» sul piano valutativo e pratico.

La pastorale, orientata verso l’integrazione tra la fede e la vita, ha bisogno perciò del supporto culturale di una educazione, orientata a far maturare in umanità. Nello stesso tempo, la pastorale dialoga con l’ ambiente educativo, offrendo quella ispirazione radicale che sostiene, incoraggia e valuta la ricerca pedagogica.

L’esito di questa esperienza salvifica è una personalità finalmente riorganizzata in unità esistenziale: caricata delle sue responsabilità, centrata sulla ricerca di significati di vita, liberata dai condizionamenti, ricollocata all’interno di un popolo di credenti, capace di vivere intensamente la sua fede e di celebrare questa stessa fede nella sua vita quotidiana.

La comunità ecclesiale assolve questo compito  soprattutto con la testimonianza della fede vissuta e confessata, perché l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri lo fa perché sono anche testimoni credibili e coerenti della Parola che annunciano e vivono.

5.     La Chiesa comunità educante e alleanza educativa fra i vari soggetti (cap. IV nn.35-51)

Se si vuole che l’azione educativa ottenga il suo scopo, è necessario che tutti i soggetti in essa coinvolti operino armonicamente verso lo stesso fine elaborando e condividendo  un progetto educativo che definisca obiettivi, contenuti e metodi su cui  impegnarsi(n.35).

 Anche se nella Chiesa comunità unipluriforme, come ha mostrato Salvatore Martinez unità non significa uniformità ma comunione di ricchezze personali (n.35).

Questo costituisce un obiettivo per la pastorale: «La complessità dell’azione educativa sollecita i cristiani ad adoperarsi in ogni modo affinché si realizzi “un’alleanza educativa tra tutti coloro che hanno responsabilità in questo delicato ambito della vita sociale ed ecclesiale”  » (n.35).

Sono molti i soggetti coinvolti nel processo educativo. Occorre maggiore attenzione e protagonismo da parte della Chiesa in tutte le sue componenti nel campo dell’educazione coordinando i soggetti educativi ecclesiali nell’ottica di una pastorale integrata e missionaria.

5.1.   Il primato educativo della famiglia

         La famiglia è  il primo naturale ambito educativo e i genitori e i figli ne sono il soggetto primario. “Ogni famiglia è soggetto di educazione e di testimonianza umana e cristiana e come tale va valorizzata, all’interno della capacità di generare alla fede propria della Chiesa.” (37).

Deve crescere la consapevolezza di una ministerialità che scaturisce dal sacramento del matrimonio e chiama l’uomo e la donna a essere segno dell’amore di Dio che si prende cura di ogni suo figlio. 

La comunità cristiana, a partire dalle parrocchie, deve avvertire l’urgenza di stare accanto ai genitori per offrire loro con disponibilità e competenza proposte educative valide.

5.2.         Il cantiere educativo della comunità ecclesiale

La comunità ecclesiale è chiamata a diventare una comunità educativa consapevole dell’importanza della dimensione educativa della pastorale e pronta ad una alleanza educativa con tutte le altre realtà presenti sul territorio.

Ogni chiesa particolare ha un potenziale educativo straordinario grazie alla sua presenza capillare nel territorio  e nei vari ambienti di vita attraverso le parrocchie e le aggregazioni ecclesiali.

La Chiesa educa offrendo gli elementi essenziali della vita del credente verso la pienezza della vita in Cristo.

n. 39 “La  catechesi, primo atto educativo della Chiesa nell’ambito della sua missione evangelizzatrice, accompagna la crescita del cristiano dall’infanzia all’età adulta e ha come sua specifica finalità «non solo di trasmettere i contenuti della fede, ma di educare la ‘mentalità di fede’, di iniziare alla vita ecclesiale, di integrare fede e vita» . Per questo la catechesi sostiene in modo continuativo la vita dei cristiani e in particolare gli adulti, perché siano educatori e testimoni per le nuove generazioni.

La liturgia è scuola permanente di formazione attorno al Signore risorto, «luogo educativo e rivelativo»in cui la fede prende forma e viene trasmessa. Tra le numerose azioni svolte dalla parrocchia, «nessuna è tanto vitale o formativa della comunità quanto la celebrazione domenicale del giorno del Signore e della sua Eucaristia»

La  carità educa il cuore dei fedeli e svela agli occhi di tutti il volto di una comunità che testimonia la comunione, si apre al servizio, si mette alla scuola dei poveri e degli ultimi, impara a riconoscere la presenza di Dio nell’affamato e  nell’assetato, nello straniero e nel carcerato, nell’ammalato e in ogni bisognoso”.

40. “ Esperienza fondamentale dell’educazione alla vita di fede è l’iniziazione cristiana, che «non è quindi una delle tante attività della comunità cristiana, ma l’attività che qualifica l’esprimersi proprio della Chiesa nel suo essere inviata a generare alla fede e realizzare se stessa come madre» Essa ha gradualmente assunto un’ispirazione catecumenale, che conduce le persone a una progressiva consapevolezza della fede, mediante itinerari differenziati di catechesi e di esperienza di vita cristiana.

Occorre confrontare le esperienze di iniziazione cristiana di bambini e adulti nelle Chiese locali, alfine di promuovere la responsabilità primaria della comunità cristiana, le forme del primo annuncio,gli itinerari di preparazione al battesimo e la conseguente mistagogia per i fanciulli, i ragazzi e i giovani, il coinvolgimento della famiglia, la centralità del giorno del Signore e dell’Eucaristia,l’attenzione alle persone disabili, la catechesi degli adulti quale impegno di formazione permanente87[1].

         5.3  La parrocchia, crocevia delle istanze educative

«La parrocchia, in particolare, rappresenta la comunità educante più completa in ordine alla fede e più vicina al vissuto delle persone e agli ambienti di vita. Mediante l’evangelizzazione e la catechesi, la liturgia e la preghiera, la vita di comunione nella carità, essa offre gli elementi essenziali del cammino ordinario dei cristiani e accompagna l’esistenza del credente verso la pienezza della vita in Cristo» (n.39).

Essa è animata dal contributo di educatori,  animatori e catechisti, autentici testimoni di gratuità, accoglienza e servizio. Non può fare tutto il parroco. Ma egli può educare altri, che possono  a loro volta svolgere insieme a lui un’azione educatrice più ampia. «La formazione di figure educative costituisce un impegno prioritario per le comunità, attente a curarne la competenza teologica, culturale e pedagogica insieme alla crescita umana e spirituale» (n.41).

5.4 Altre realtà ecclesiali con un’importante valenza educativa .

«Nelle diocesi e nelle parrocchie sono attive tante aggregazioni ecclesiali: associazioni e movimenti, gruppi e confraternite.  Si tratta di esperienze determinanti per l’azione educativa, che richiedono di essere sostenute, qualificate e coordinate. In esse i fedeli di ogni età e condizione sperimentano la ricchezza di autentiche relazioni fraterne, trovano itinerari di conversione nell’ascolto della parola e di discernimento comunitario per vivere la fede nel quotidiano, scuole di vita cristiana che si esprime, nella corresponsabilità con i pastori e le altre componenti del popolo di Dio, come efficace e credibile testimonianza del Vangelo nella società» (n.43).

Si accenna alla missione particolare dell’Azione cattolica:” Tra queste realtà, occupa un posto specifico e singolare l’Azione Cattolica, che da sempre coltiva uno stretto legame con i pastori della Chiesa, assumendo come proprio il programma pastorale della Chiesa locale e costituendo per i soci una scuola di formazione cristiana. Le figure di grandi laici che ne hanno segnato la storia sono un richiamo alla vocazione alla santità, meta di ogni battezzato.”

«La pietà popolare rappresenta ancora uno dei momenti forti nella vita ecclesiale e può diventare veicolo educativo di valori della tradizione cristiana riscoperti nel loro significato culturale e spirituale» (n.44).

Don Luigi Sturzo pur apprezzando il sentimento religioso del popolo meridionale, ne conosce anche i limiti: il sentimento, senza un'adeguata istruzione e una coerente vita morale, degenera facilmente nell'estetismo esteriore, nel cultualismo rumoroso, nel fanatismo nel dualismo tra fede (spesso unita alla superstizione) e condotta di vita spesso immorale. Pur non negando l'importanza del culto, egli, lamenta che le feste religiose e la predicazione tendano più ad accarezzare la fantasia del popolo, che a investire tutta la sua vita morale . Sturzo, pur guardando alla religiosità popolare non con la sufficienza dell'intellettuale, ma con la simpatia del pastore, che vive a contatto col popolo, non manca di notarne le ambiguità e i lati negativi, con lo scopo di purificarla e di orientarla verso una fede convinta e una pratica sacramentale autentica, una vita morale coerente coi principi evangelici e gli insegnamenti del magistero. 

  In una conferenza ai seminaristi di Piazza Armerina del 1907 dice:” In che cosa consiste di fatti la esplicazione della fede religiosa nella nostra Sicilia? La condotta del popolo colla fede religiosa consiste nella manifestazione di un culto rumoroso, e si attacca anche alla forza di questo santo con un rito e nome determinato.. Dunque, tutta l’attività della fede di questo popolo consiste nell’onorare il santo in una forma esteriore, in una forma troppo profana, poco religiosa. Non troverete che poche persone che si confessano, che frequentano l’Eucaristia; si cerca piuttosto la protezione di un santo che si invoca contro le cavallette,i cattivi raccolti, per la pioggia che non viene, per le malattie dei propri parenti. Il popolo tende verso la tale santa immagine,, verso la tale madonna, quella statua determinata e concreta, in quella data chiesa. Può essere questo un tramite, un mezzo buono perché il popolo possa avvicinarsi al sacerdote; ma questo mezzo non è sempre salutare ai costumi, almeno nella generalità dei casi. E’ una fede rudimentale, non conoscendone le vere nozioni. Di fatti voi troverete tanta buona gente che non conosce il catechismo; ma che sa fare la croce, dice il Pater Noster e l’Ave Maria, senza sentimento vero, reale; ma in confuso. Saprà qualche cosa sulla devozione e sui canti; ma la sua coscienza avrà una concezione falsa della vita religiosa. Questo è uno stato generale, normale, più largo di quello che non si crede. E’ un sentimento che si ripercuote, è un sentimento di timore di una vita avvenire, è un salutare barlume di vita cristiana, è un sentimento di famiglia che si mantiene integro. E questo è un altro elemento buono che può utilizzarsi; ma è limitato, rudimentale”  .

 “Purificata da eventuali eccessi e da elementi estranei e rinnovata nei contenuti e nelle forme, permette di raggiungere con l’annuncio tante persone che altrimenti resterebbero ai margini della vita ecclesiale.  In essa devono risaltare la parola di Dio, la predicazione e la catechesi, la preghiera e i sacramenti dell’Eucaristia e della riconciliazione e, non ultimo, l’impegno per la carità verso i poveri.” (n.44)

«Un ruolo educativo particolare è riservato nella chiesa alla vita consacrata (…) per la sua indole escatologica» (45) soprattutto agli istituti che hanno una particolare vocazione educativa. .

         5.6 Altre comunità educanti:scuola e università

Si parla poi delle comunità educanti che, al di fuori dell’area ecclesiale, svolgono comunque una funzione educativa fondamentale.

La Chiesa deve mostrare particolare attenzione per la scuola di ogni ordine e grado, per valorizzarne la funzione educativa che, essendo opera corale, richiede la promozione di una vera alleanza educativa fra famiglie, scuole, parrocchie, associazioni e movimenti presenti in un determinato territorio.

Non è accettabile la tesi che considera mondo separato ed estraneo alla missione propria della comunità cristiana la scuola pubblica, sia essa paritaria che statale, fondata sull’autonomia e quindi aperta al territorio. Le parrocchie sono invitate ad ospitare le iniziative promosse dalle scuole e farsi ospitare da esse per un servizio comune ai giovani.

E’ fondamentale anche se non esclusivo il ruolo dei professori di religione.  «L’insegnamento della religione cattolica permette agli alunni di affrontare le questioni inerenti il senso della vita e il valore della persona, alla luce della Bibbia e della tradizione cristiana» (n.47).

 La scuola cattolica e i centri di formazione professionale d’ispirazione cristiana fanno parte a pieno titolo del sistema nazionale di istruzione e formazione(n.48).

Ultima tappa del percorso educativo sono gli studi universitari. «Il raccordo tra l’università e la Chiesa locale è promosso attraverso la pastorale universitaria, inserita a pieno titolo nell’impegno di evangelizzazione della cultura e di educazione e formazione dei giovani e dei docenti» (n.49).

L’obiettivo generale è quello di consolidare il carattere organico della pastorale della scuola, della formazione professionale e dell’università attraverso l’integrazione con gli altri settori diocesani della pastorale d’ambiente e della pastorale ordinaria.

In questo nuovo decennio caratterizzato dalla risposta corale che la Chiesa in Italia intende dare alla sfida educativa che riguarda tutti i soggetti e gli ambiti della vita ecclesiale e della comunità civile, per un futuro aperto alla speranza, bisogna dar vita a una grande e nuova passione educativa, affidata a una nuova generazione di educatori, rilanciando la pastorale educativa e scolastica, che non può essere considerata la “cenerentola” sacrificata a favore di altre attenzioni ritenute prioritarie all’interno della progettazione pastorale ecclesiale, ma deve recuperare il suo ruolo di raccordo che armonizzi i percorsi educativi e dell’iniziazione cristiana con la pastorale giovanile, vocazionale, familiare, culturale e sociale.

6.Educazione e vari ambiti dell’esperienza umana

Il compito educativo interessa in modo trasversale i vari ambiti dell’esperienza umana: dall’affettività alla cittadinanza, dalla catechesi alla scuola, dal lavoro e dal tempo libero ai mezzi della comunicazione di massa.

  Si tratta di passare da un cristianesimo convenzionale di "atei devoti", per i quali Dio è un intruso che non entra nella vita quotidiana, ad un cristianesimo maturo fondato su una fede autentica, da una appartenenza ecclesiale debole ad una appartenenza responsabile. 

  Si tratta di passare dai particolarismi e campanilismi ad una comune corresponsabilità missionaria attraverso strutture pastorali adeguate ai nuovi tempi, da una pratica religiosa rinchiusa nelle sagrestie ad una testimonianza cristiana coraggiosa e gioiosa presente nel mondo della cultura e della costruzione della città degli uomini nella giustizia e nella pace, capace di liberarsi dalla barbarie della mafia, dalle piaghe dell’usura e del pizzo e da ogni  altra forma di violenza e di illegalità. Le incrostazioni derivano dalla  non accettazione  delle novità suscitate dallo Spirito .

 La nostra Chiesa per essere autorevole deve liberarsi da una certa mentalità clericale che porta all’autoreferenzialità. A volte si rischia di vivere una pastorale di conservazione, individualistica e senza coordinamento. Ecco perché  è fondamentale  quella che nel Convegno del 2009  veniva chiamata” Una pastorale d’integrazione, integrata e integrale” che richiede di trarre le conseguenze pratiche dalla fraternità cristiana sentendosi non collaboratori occasionali ma corresponsabili di tutta la vita della Chiesa.

7 . Obiettivi e scelte prioritarie

E’ necessario attivare percorsi di vita buona.

Ogni ambito del vissuto umano è interpellato dalla sfida educativa. Dobbiamo domandarci come le indicazioni maturate nel Convegno ecclesiale di Verona siano state recepite e attuate in ordine al rinnovamento dell’azione ecclesiale e alla formazione dei laici, chiamati a coniugare una matura spiritualità e il senso di appartenenza ecclesiale con un amore appassionato per la città degli uomini e la capacità di rendere ragione della propria speranza nelle vicende del nostro tempo.

Su questo come diocesi ci siamo occupati ampiamente nel Convegno del 2007 le cui conclusioni e proposte frutto del lavoro dei gruppi di studio vi invito a rileggere per attuarle.

- Tra i processi di accompagnamento alla costruzione dell’identità personale, merita particolare rilievo l’educazione alla vita affettiva, a partire dai più piccoli.

È urgente accompagnare i giovani nella scoperta della loro vocazione con una proposta che sappia presentare e motivare la bellezza dell’insegnamento evangelico sull’amore e sulla sessualità umana, contrastando il diffuso analfabetismo affettivo.

Particolare cura richiede la formazione al matrimonio cristiano e alla vita familiare. Il rinnovamento di tali itinerari è necessario per renderli cammini efficaci di fede e di esperienza spirituale. Questo percorso dovrà continuare anche mediante gruppi di sposi e di spiritualità familiare, animati da coppie preparate e testimoni di unità e fedeltà nell’amore.

- La capacità di vivere il lavoro e la festa come compimento della vocazione personale appartiene agli obiettivi dell’educazione cristiana. È importante impegnarsi perché ogni persona possa vivere «un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale»92, prendendosi cura degli altri nella fatica del lavoro e nella gioia della festa, rendendo possibile la condivisione solidale con chi soffre, è solo o nel bisogno.

 Oltre a promuovere una visione autentica e umanizzante di questi ambiti fondamentali dell’esistenza, la comunità cristiana è chiamata a valorizzare le potenzialità educative dell’associazionismo legato alle professioni, al tempo libero, allo sport e al turismo.

- L’esperienza della fragilità umana si manifesta in tanti modi e in tutte le età, ed è essa stessa, in certo modo, una “scuola” da cui imparare, in quanto mette a nudo i limiti di ciascuno. Per queste ragioni il tema della fragilità entra a pieno titolo nella dinamica del rapporto educativo, nella formazione e nella ricerca del senso, nelle relazioni di aiuto e di accompagnamento. Pur nella particolarità di tali situazioni, che non si lasciano rinchiudere in schemi e programmi, non possono mancare nelle proposte formative la contemplazione della croce di Gesù, il confronto con le domande suscitate dalla sofferenza e dal dolore, l’esperienza dell’accompagnamento delle persone nei passaggi più difficili, la testimonianza della prossimità, così da costruire un vero e proprio cammino di educazione alla speranza.

- La Chiesa esiste per comunicare: è essa stessa tradizione vivente, trasmissione incessante del Vangelo ricevuto, nei modi culturalmente più fecondi e rilevanti, affinché ogni uomo possa incontrare il Risorto, che è via, verità e vita. Nell’ampio ventaglio di forme in cui la Chiesa attua questa responsabilità, un aspetto particolarmente importante è l’educazione alla comunicazione, mediante la conoscenza, la fruizione critica e la gestione dei media. Anche questa nuova frontiera passa attraverso le vie ordinarie della pastorale delle parrocchie, delle associazioni e delle comunità religiose, avvalendosi di apposite iniziative di formazione. Mentre resta necessario investire risorse adeguate – di persone e mezzi – in questo ambito, occorre sostenere l’impegno di quanti operano da cristiani nell’universo della comunicazione.

- Avvertiamo infine la necessità di educare alla cittadinanza responsabile. Nella visione cristiana l’uomo non si realizza da solo, ma grazie alla collaborazione con gli altri e ricercando il bene comune. Per questo appare necessaria una seria educazione alla socialità e alla cittadinanza, mediante un’ampia diffusione dei principi della dottrina sociale della Chiesa, anche rilanciando le scuole di formazione all’impegno sociale e politico. Una cura particolare andrà riservata al servizio civile e alle esperienze di volontariato in Italia e all’estero. Si dovrà sostenere la crescita di una nuova generazione di laici cristiani, capaci di impegnarsi a livello politico con competenza e rigore morale.

8.  La promozione di nuove figure educative.

Particolare importanza assume la formazione dei seminaristi, dei diaconi e dei presbiteri al ruolo di educatori chiamati ad essere  i formatori dei formatori e le guide spirituali che, nella comunità, sostengono il cammino della fede di ogni battezzato.

Per una educazione alla vita buona del Vangelo , che pervada tutti gli ambiti dell’esistenza , è fondamentale l’apporto dei laici cristiani che si sentano corresponsabili della missione della Chiesa, perché germini la sensibilità ad assumere compiti educativi nella Chiesa e nella società.

In relazione ad ambiti pastorali specifici dovranno svilupparsi figure quali laici missionari che portino il primo annuncio del Vangelo nelle case e tra gli immigrati; accompagnatori dei genitori che chiedono per i figli il battesimo o i sacramenti dell’iniziazione; catechisti per il catecumenato dei giovani e degli adulti; formatori degli educatori e dei docenti; evangelizzatori di strada, nel mondo della devianza, del carcere e delle varie forme di povertà.

 E però importante però che  essi siano adeguatamente formati  cioè conformati a Gesù Cristo, che è molto di più di essere istruiti sui principi della fede e della morale cristiana.

 E’ importante che i laici ,soprattutto quelli  che fanno parte di associazioni , movimenti e confraternite non si chiudano nelle loro “chiesuole” ma vivano un’autentica fraternità e maturino una mentalità ecclesiale che li porti a sentirsi corresponsabili  della nuova evangelizzazione.





9.     Indicazioni per la progettazione di un  proprio cammino pastorale da parte della nostra diocesi.

Alla base del nostro cammino, sta la necessità di prendere coscienza dell’urgenza della questione educativa.

Oggi è necessario curare in particolare relazioni aperte all’ascolto, al riconoscimento, alla stabilità dei legami e alla gratuità. Ciò significa:

- cogliere il desiderio di relazioni profonde che abita il cuore di ogni uomo, orientandole alla ricerca della verità e alla testimonianza della carità;

- porre al centro della proposta educativa il dono come compimento della maturazione della persona;

- far emergere la forza educativa della fede verso la pienezza della relazione con Cristo nella comunione ecclesiale (EVBV,53).

         Si tratta di incrementare le iniziative già presenti in modo più organico e capillare nei vari ambiti come sono state indicate nelle conclusioni del convegno del 2007.

Bisogna favorire incontri di formazione per genitori, catechisti, candidati ai ministeri , insegnanti,  operatori della comunicazione, operatori della carità che sappiano rispondere alle nuove povertà del nostro territorio,, in ogni paese della  diocesi.

Per valorizzare la missione dei laici nella Chiesa il prossimo anno saranno inoltre organizzati dalla Consulta per l’Apostolato dei Laici in ogni comune degli incontri per i laici appartenenti alle varie aggregazioni ecclesiali perché a partire dalla loro identità carismatica e dalla loro storia possano vivere la comunione ecclesiale collaborando attivamente per una pastorale organica e dando  il loro contributo agli organismi di partecipazione ecclesiale.

Per quanto  riguarda i catechisti e gli operatori pastorali   bisogna “formare i formatori “ attraverso la  partecipazione  agli incontri formativi a livello diocesano, vicariale e cittadino .

Per una buona  formazione teologica è importante valorizzare  l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Mario Sturzo” per preparare soprattutto operatori pastorali qualificati. Si potrà così contare su educatori e operatori pastorali qualificati per un’educazione attenta alle persone, rispondente alle domande poste alla fede dalla cultura e in grado di rendere ragione della speranza in Cristo nei diversi ambienti di vita. In collaborazione con questo nostro Istituto in alcuni comuni   è possibile programmare e realizzare una Scuola di teologia di base.

      Per quanto riguarda la pastorale familiare non basta preparare corsi prematrimoniali per  i fidanzati  come itinerari di riscoperta della fede e di inserimento nella vita della comunità ecclesiale, ma bisogna sostenere i genitori nel loro difficile compito educativo promuovendone la competenza mediante corsi di formazione, incontri, gruppi di confronto e di mutuo sostegno come avvenuto  per esempio a Niscemi.

Nelle comunità parrocchiali  è necessario attivare la conoscenza e la collaborazione tra catechisti, insegnanti  e animatori di associazioni e gruppi  con una attenzione particolare al “pianeta scuola”, in quanto in una scuola pubblica fondata sull’autonomia e sull’apertura al territorio non è accettabile la tesi che considera la scuola mondo separato ed estraneo alla missione propria della comunità cristiana.

 Quest’anno sono stati programmati degli incontri  delle consulte di pastorale giovanile nei vari paesi per continuare il percorso della GMG di Madrid. Nel recente messaggio rivolto ai giovani della diocesi ho scritto:”

“L’incontro di Madrid deve continuare nella vita di ogni giorno.Voi e i vostri amici che sono rimasti a casa , con la vostra disponibilità a portare nel mondo la speranza che nasce dalla fede, siete i testimoni di una chiesa giovane e viva, negli ambienti più diversi dove si svolge la vita dei giovani. 

Il tema suggerito  per il prossimo anno  a livello diocesano ruota  attorno all’espressione di San Paolo “Siate sempre lieti nel Signore” (Fil 4,4). In una società  che spesso comunica soltanto tristezza e noia,  destabilizzando i giovani in cerca del senso della vita, siete chiamati a testimoniare  che l’incontro con Gesù Cristo all’interno della comunità ecclesiale è la sorgente della vita e della gioia.

Non è possibile incontrare Cristo e non farlo conoscere agli altri.  Siete chiamati a comunicate agli altri giovani, con la parola e con l'esempio,  la gioia della vostra fede, di una fede entusiasta e colorata come quella dei giovani della GMG di Madrid, che non si nasconde e non ha paura”.

 E’ in programmazione una scuola di  formazione socio-politica  a Gela da estendere  poi ad altri comuni della diocesi per formare , alla luce della dottrina sociale della Chiesa,  una generazione nuova di cattolici impegnati nei campi dell’economia, del volontariato e della politica. Questa progetto nasce dalla collaborazione degli Uffici di pastorale giovanile e sociale con l’associazione “G. La Pira” di Gela e l’Azione cattolica diocesana.

E’ importante anche valorizzare il nostro settimanale diocesano facendone una palestra di confronto di idee e di iniziative. Vi invito a leggere il drammatico editoriale di p. Rabita sul numero ultimo del settimanale.  Per evitare che questo prezioso strumento cessi la pubblicazione è necessario incrementarne la diffusione capillare attraverso gli abbonamenti o la vendita militante nelle parrocchie affidata a volontari.

La condivisione di queste prospettive, accolte e sviluppate a livello locale, favorirà l’azione concorde delle comunità ecclesiali, chiamate ad assumere consapevolmente la responsabilità educativa nell’orizzonte culturale e sociale.

   Sul tema dell’educazione e dell’evangelizzazione della cultura ha dato un contributo importante  S..E. Mons. Mario Sturzo, di cui il prossimo novembre ricorrerà il 150 della nascita e il 70 della morte, per cui abbiamo indetto un anno sturziano, che avrà il suo momento culminante il prossimo 12 novembre con una concelebrazione in cattedrale presieduta dal Card. Paul Poupard.

In un articolo apparso nel mensile diocesano di allora intitolato Spigolature alla terza uscita del 1914 così scriveva: “La vita dello spirito reclama una seconda generazione che è l’educazione; è la protezione da tutti quei bacilli morali che vagano in ogni ambiente e che non aspettano che la condizione favorevole per entrare in virulenza e cagionare la malattia morale e la morte”. Il vescovo calatino vedeva l’educazione come una vera e propria “seconda generazione” e di conseguenza chi educava era alla stregua dei genitori e della fede battesimale della Chiesa, che avevano dato la “prima generazione”.

Per mons. Sturzo l’educazione abbraccia tutto l’arco della vita umana, perché è orientata alla santificazione per la quale  raggiungiamo Dio sommo bene.

  In questo decennio che la Chiesa Italiana ha dedicato al tema dell’educazione come alla prima emergenza del nostro Paese poniamo sotto lo sguardo materno di Maria, che ci educa alla vita buona del Vangelo, il cammino e il compito dell’educazione. Guardando a Maria SS. come esempio e confidando nella sua materna intercessione preghiamo perchè le famiglie, la scuole, le comunità ecclesiali, le istituzioni pubbliche, con spirito concorde e costruttivo si impegnino con decisione e costanza nel superare l’emergenza educativa della nostra società  dovuta anche all’irresponsabilità e l’inconsistenza di tanti adulti che hanno rinunciato alla loro funzione educativa, lasciando i giovani nella loro solitudine e nel loro vuoto interiore.



[1] 87 Oltre ai documenti della CEI già citati, cfr le tre Note pastorali del Consiglio Episcopale Permanente sull’iniziazionecristiana: L’iniziazione cristiana 1. Orientamenti per il catecumenato degli adulti, 30 marzo 1997; L’iniziazionecristiana 2. Orientamenti per l’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni, 23 maggio 1999;L’iniziazione cristiana 3. Orientamenti per il risveglio della fede e il completamento dell’iniziazione in età adulta, 8giugno 2003.

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La stagione aggregativa dei fedeli laici:

identità e missione



Salvatore MARTINEZ

Presidente Rinnovamento nello Spirito Santo







Una premessa



«La Chiesa: da amare, servire, sopportare, edificare

con tutto il talento, con dedizione, con inesauribile pazienza  e umiltà:

ecco ciò che resta sempre da fare, cominciando, ricominciando,

finché tutto sia consumato, tutto sia ottenuto (sarà mai?),

finché Egli ritorni. Con ogni fiducia. Come sempre».

                                   Nota personale dal diario di Papa Paolo VI.



Io devo tutto alla Chiesa: amata da bambino, servita fin da ragazzo, che mi hai portato alle fonti del mio esistere e vivere, quando non potevo ancora né camminare, né pensare, né amare; che mi ha dato tutto quello che il mio cuore non avrebbe potuto sognare e perdonato quello che il mio cuore non poteva perdonarmi.



Amarla e insegnare agli uomini ad amarla: imperfetta negli uomini, spesso adombrata come una vecchia madre dalle rughe profonde, ma preordinata in Cristo ad essere l’unico ponte verso il Cielo. Diffidiamo dalle imitazioni! No troverete amore più amante fuori dalla Chiesa di Cristo.



La Chiesa è la mia casa. In essa trovo tutto. Con essa non manco di nulla. Finché nel mondo ci sarà anche solo un campanile, un crocifisso, un tabernacolo, quel luogo sarà casa mia.



A Verona, nel 2006, in occasione del Convegno Ecclesiale Nazionale, è riecheggiata l'esperienza di tanti laici e comu­nità impegnati a vivere con passione, talvolta con sofferenza, gli in­segnamenti del Vaticano II sul laicato. Nella nota pastorale della CEI, seguente al Convegno di Verona, si legge: «Occorre creare nelle comunità cristiane luoghi in cui i laici possano prendere la parola, comunicare la loro esperienza di vita, le loro domande, le loro scoperte, i loro pensieri sull' essere cristiani nel mondo» (n. 26).



Credo che in queste espressioni sia racchiuso il senso, l’attualità e la profezia che i Movimenti sono e saranno nella Chiesa e per la Chiesa: luoghi che hanno a cuore la causa cattolica, l’espansione del Regno di Dio, spazi di fraternità in cui sinceramente pensare, ragionare, purificare, raffinare il nostro essere cristiani nel mondo alla luce del Vangelo e dei carismi specifici elargiti dallo Spirito . Senza rivendicazioni, primazie, o egoismi autoreferenziali, almeno è questo ciò che io credo, spero e amo e che non mi stanco di testimoniare.



Una “nuova era” la definiva Papa Benedetto XVI a Sidney, in occasione della GMG 2008, in cui rimanga centrale la docile accoglienza dello Spirito Santo e la Sua amorevole e potente guida.





Il Novecento, secolo dello Spirito



Giovanni XXIII, in preparazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (25/11/1961), formulò un’audace speranza profetica: “Rinnova nella nostra epoca i prodigi come di una nuova Pentecoste”. E Paolo VI, nell'udienza generale del 16 Ottobre 1974: "Voglia il Signore effondere, oggi, una grande pioggia di carismi per rendere feconda, bella e meravigliosa la Chiesa, capace d'imporsi all'attenzione e allo stupore del mondo profano, del mondo laicizzante”.



Non possiamo non ricordare come già Papa Leone XIII, il 1° gennaio del 1901, avesse dedicato il ventesimo secolo allo Spirito Santo intonando il Veni Creator Spiritus in nome della Chiesa intera, dopo la pubblicazione dell'enciclica dedicata allo Spirito Santo nel 1897. Certamente la voce di Leone XIII ha raggiunto il cielo, se osserviamo il rigoglio di movimenti e comunità, il risveglio del laicato associato diffuso in ogni parte del mondo come autentica risposta dell'unico Spirito alle preghiere dei Papi per il rinnovamento spirituale di questo nostro secolo.



L’associazionismo dei fedeli percorre, attraverso svariate forme, tutta la storia della Chiesa. Lungo i secoli “assistiamo continuamente – diceva S. S. Giovanni Paolo II – al fenomeno di gruppi più o meno grandi di fedeli, i quali, per un impulso misterioso dello spirito, furono spontaneamente spinti ad associarsi con l’obiettivo di perseguire determinati fini di carità o di santità, in relazione alle particolari necessità della Chiesa nel loro tempo o anche per collaborare nella sua missione essenziale e permanente” (Discorso a CL in occasione degli Esercizi Spirituali, 12.IX.1985).



“Sempre nella storia della Chiesa - conferma l’Esortazione apostolica Christifideles laici l’aggregarsi dei fedeli ha rappresentato in qualche modo una linea costante” (n.29).



Non sono stati i laici i protagonisti principali dei diversi movimenti monacali del primo millennio cristiano, seguiti da molte esperienze di “vita apostolica” tra loro? Abbiamo ancora le testimonianze dei terzi ordini “secolari”, che affondano le loro radici al basso Medioevo. Poi si aggiungeranno gli “oratori”, le “congregazioni mariane”, diverse esperienze associative di donne cristiane e una fitta rete di confraternite laicali.



Nel corso della prima metà del XX secolo la dinamica associativa conobbe uno sviluppo ancor più vasto e diversificato, avendo come colonna vertebrale l’Azione Cattolica, nata già verso la fine del XIX secolo ma definita e strutturata più precisamente, e propagata a livello mondiale, specialmente durante il pontificato di S.S. Pio XII.



Si costituiscono anche, tra i decenni 1920-1970, numerose associazioni di fedeli di dimensione internazionale, con grande varietà di finalità e campi di azioni, in sintonia alla graduale configurazione e istituzionalizzazione della vita internazionale e allo sviluppo storico della cattolicità, dando origine alla famiglia delle Organizzazioni Internazionali Cattoliche.





Frutti del Concilio



L’Esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici (30 dicembre 1988) è il primo documento del Magistero pontificio che segnala e affronta sistematicamente la novità dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità che irrompono nella vita della Chiesa nel tempo post-conciliare.



“In questi ultimi tempi – scrive S.S. Giovanni Paolo II – il fenomeno dell’aggregarsi dei laici tra loro è venuto ad assumere caratteri di particolare varietà e vivacità (…). Possiamo parlare di una nuova stagione aggregativa dei fedeli laici. Infatti, accanto all’associazionismo tradizionale, e talvolta alle sue stesse radici, sono germogliati movimenti e sodalizi nuovi, con fisionomie e finalità specifiche: tanta è la ricchezza e la versatilità delle risorse che lo Spirito alimenta nel tessuto ecclesiale, e tanta è pure la capacità di iniziativa e la generosità del nostro laicato” (Ch.L. 29).



Il Concilio Ecumenico Vaticano II non aveva dedicato ad essi un’attenzione specifica, un fatto comprensibile giacché erano pochi quelli allora esistenti, mentre altri stavano sorgendo solo allora nella vita ecclesiale.



Si può ben dire però che i movimenti ecclesiali e le nuove comunità sono frutti del Concilio Vaticano II in quanto esso ne ha reso possibile se non la nascita, almeno la crescita e la maturazione. Come avvenimento capitale dello Spirito di Dio per la Chiesa del nostro tempo, il Concilio seminò gli insegnamenti e aprì gli argini affinché corsi di acqua viva, sgorgati dall’unica, inesauribile sorgente, irrigassero la vita delle persone e delle comunità fecondandola.



Non è per caso che, nel cammino sinodale di ripresa e di sviluppo degli insegnamenti conciliari, l’Esortazione apostolica Christifideles laici abbia articolato i suoi contenuti alla luce dell’autocoscienza ecclesiale come mistero di comunione missionaria, mettendone in risalto la dimensione carismatica. Anzi, lo stesso Giovanni Paolo II sottolineerà, alcuni anni dopo, il fatto che i movimenti “rappresentano uno dei frutti più significativi di quella primavera della Chiesa già preannunciata dal Concilio Vaticano II, ma purtroppo non di rado ostacolata dal dilagante processo di secolarizzazione” (Messaggio al Congresso Mondiale dei Movimenti Ecclesiali, 28.V.1998).



Lo stesso giudizio era stato già espresso dal Cardinale Joseph Ratzinger nel suo “Rapporto sulla fede” (Libro Intervista con Vittorio Messori, Paoline, 1985). Nel contesto di una Chiesa percorsa da dibattiti intellettualistici, appesantita dalla burocratizzazione e da frequenti situazioni di scetticismo critico, riferendosi all’irruzione dei movimenti, il Cardinale osserva che “lo Spirito Santo fa risbocciare la fede, senza ‘se’ e senza ‘ma’, “senza sotterfugi né scappatoie, vissuta nella sua integralità come dono, come un regalo prezioso che fa vivere” (pag. 24).



Giudizio poi ripreso recentemente S.S. Benedetto XVI: “I movimenti ecclesiali e le nuove comunità sono una delle novità più importanti suscitate dallo Spirito Santo nella Chiesa per l’attuazione del Concilio Vaticano II”.  (Discorso ai partecipanti al seminario di studio per i Vescovi promosso dal Pontificio Consiglio per i Laici, Vaticano, 18.V.2008). E ancora nei giorni scorsi, rivolgendosi ai Vescovi di recente nomina (15.IX.2011).



I movimenti ecclesiali e le nuove comunità non esauriscono i componenti di questa “nuova stagione aggregativa”. Nella stessa Esortazione apostolica si riprende e si rilancia la grande tradizione dell’Azione Cattolica, dopo una fase di indebolimento e di impoverimento; ed è segno molto eloquente il fatto che sia stata la VII Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, riunita per esaminare “la vocazione e la missione dei laici nella vita della Chiesa e della società” l’ambito in cui maturano i contatti e le riflessioni che porteranno alla nascita del Forum Internazionale di Azione Cattolica (FIAC), con lo scopo di sostenere e propagare la realtà associativa e apostolica dell’Azione Cattolica nel mondo.



Altre associazioni tradizionali di fedeli intraprendono un cammino di rinnovamento, e a volte di rinascita, alla luce dell’avvenimento e degli insegnamenti del Vaticano II. Sorgono numerose forme associative, di fraternità e di cooperazione dei fedeli laici, legate al carisma, all’apostolato e alle opere di Istituti di Vita Consacrata e alle loro “famiglie religiose”. E risulta sempre più significativa la partecipazione dei cattolici in numerose organizzazioni non governative, di tanti diversi scopi, specialmente in quelle di matrici cristiane.



L’irrompere dei movimenti e delle nuove comunità nella scena ecclesiale non oscura né sostituisce questa diversità ma segna con la loro impronta propulsiva e paradigmatica la “nuova stagione aggregativa”. Ed è perciò che concentreremmo specialmente l’attenzione su di loro.





Una sicura novità



Il testo dell’Esortazione apostolica riguardante i movimenti ecclesiali condensava, inoltre, l’attenta consapevolezza che Giovanni Paolo II aveva dimostrato dall’inizio del suo Pontificato circa le nuove realtà emergenti. Nell’enciclica Redemptor Hominis (4.III.1979) il Papa polacco indica tra i frutti del Concilio, “non soltanto le organizzazioni dell’apostolato laicale già esistente”, ma anche organizzazioni “nuove, aventi spesso un profilo diverso e una dinamica eccezionale” (n. 5).



I numerosi incontri che il Beato Giovanni Paolo II avrà avuto con diversi movimenti in Vaticano e in occasione dei suoi viaggi apostolici, i messaggi e le parole di incoraggiamento che pronuncerà nei Congressi che vedranno insieme i vari movimenti ci forniscono un magistero ampio e puntuale su questa materia.



Il suo diretto e fidato collaboratore, il Cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, coglieva bene il carattere sorprendente di questa novità inattesa: “Ciò che apre alla speranza a livello della Chiesa universale - e ciò avviene proprio nel cuore della crisi della Chiesa universale – è il sorgere di nuovi movimenti, che nessuno ha progettato, ma che sono scaturiti spontaneamente dalla vitalità interiore della fede stessa. Si manifesta in essi – per quanto sommessamente – qualcosa come una stagione di pentecoste nella Chiesa (…). Emerge qui una nuova generazione della Chiesa (…). Trovo meraviglioso – concludeva - che lo Spirito sia ancora una volta più forte dei nostri programmi e valorizzi ben altro da ciò che noi ci eravamo immaginati”(in “Rapporto sulla fede).



In particolar modo, il Beato Giovanni Paolo II Servo di Dio era ben consapevole che essi rappresentavano “una sicura novità”, ma che questa – lui avvertiva – “ancora deve essere adeguatamente compresa in tutta la sua positiva efficacia per il Regno di Dio in ordine alla sua attuazione nell’oggi della storia”(Allocuzione a CL, 30.IX.1984).



Infatti, lo stesso Papa ricorderà anni dopo che “la loro nascita e diffusione ha recato nella vita della Chiesa una novità inattesa e talvolta persino dirompente. Ciò non ha mancato di suscitare interrogativi, disagi, tensioni; talvolta ha comportato presunzioni e intemperanze da un lato, e non pochi pregiudizi e riserve dall’altro”(Discorso ai Movimenti e alle Nuove Comunità in occasione dell’Incontro Mondiale, 30.V.1998).



Fu proprio questo il “clima” vissuto durante molti dibattiti nelle sessioni della VII Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi. Molti interventi si concentrarono sui movimenti e a volte ci furono discussioni assai tese e vivaci.



L’Esortazione apostolica di S.S. Giovanni Paolo II, che può essere considerata frutto di quella Assemblea sinodale, sviluppò anche “criteri chiari e precisi di discernimento e di riconoscimento” per affrontare la nuova realtà dei movimenti e di altri sodalizi affinché le autorità ecclesiastiche competenti esercitino il loro servizio di guida e di incoraggiamento “per una crescita delle aggregazioni dei fedeli laici nella comunione e nella missione della Chiesa”(Ch.L. 31).



Allo stesso tempo, questi “criteri di ecclesialità” mostravano che ciò che si apprezzava e ciò che allo stesso tempo si richiedeva a queste aggregazioni era in profonda consonanza con le priorità che si manifestavano chiaramente nel disegno pastorale del ministero del Successore di Pietro: “il primato dato alla vocazione di ogni cristiano alla santità, manifestata nei frutti della grazia che lo Spirito produce nei fedeli (…); la responsabilità di confessare la fede cattolica, accogliendo e proclamando la verità su Cristo, sulla Chiesa e sull’uomo (…)”, facendosi luoghi di “annuncio e di proposta della fede, e di educazione a essa nel suo integrale contenuto; la testimonianza di una comunione salda e convinta, in relazione filiale con il Papa e con i Vescovi (…); la conformità e la partecipazione al fine apostolico della Chiesa”, con rinnovato slancio missionario, evangelizzatore; e “l’impegno di una presenza nella società umana, che, alla luce della dottrina sociale della Chiesa, si ponga a servizio della dignità integrale dell’uomo”(Ch.L., 30).





Una grande pluralità e diversità



Ogni movimento o nuova comunità si realizza, grazie al proprio carisma, come “metodo” o “cammino” di educazione alla fede, fatta esperienza portante e totalizzante della vita, orientata, giudicata e alimentata dalla Parola di Dio, dai doni sacramentali e dal magistero ecclesiale. In tale modo, i movimenti ecclesiali e le nuove comunità sono considerate “scuole” di comunione, di libertà e di vita vera “compagnie in cammino nelle quali si impara a vivere nella verità e nell’amore che Cristo ci rivelò e comunicò per mezzo della testimonianza degli apostoli, dentro la grande famiglia dei suoi discepoli”(Benedetto XVI, Omelia nei Vespri della Vigilia di Pentecoste, celebrata con i Movimenti e le Nuove Comunità, Vaticano, 3.VI.2006).



Definendo i tratti comuni tra le diverse realtà suscitate da questi nuovi carismi, S.S. Giovanni Paolo II metteva in luce, nel Messaggio ai partecipanti al 1° Congresso mondiale dei movimenti tenutosi nel 1998, che se il termine “movimenti”, da un lato, “non può esaurire né fissare la ricchezza delle forme suscitate dalla creatività vivificante dello Spirito di Cristo, dall’altro sta però a indicare una concreta realtà ecclesiale a partecipazione in prevalenza laicale, un itinerario di fede e di testimonianza cristiana che fonda il proprio metodo pedagogico su un carisma preciso donato alla persona del fondatore in circostanze e modi determinati” (Giovanni Paolo II, Messaggio al Congresso Mondiale, 28.V.1998).



“Pur nella diversità di forme – affermava il Papa nello stesso messaggio -, i movimenti si caratterizzano per la comune consapevolezza della ‘novità’ che la grazia battesimale porta nella vita, per il singolare anelito ad approfondire il mistero della comunione con Cristo e con i fratelli, per la salda fedeltà al patrimonio di fede trasmesso dal flusso vivo della Tradizione”(idem).



E nonostante queste espressioni generiche di “movimenti” e “nuove comunità”, S.S. Giovanni Paolo II, e poi S.S. Benedetto XVI, misero in rilievo la pluralità e la diversità delle esperienze nell’edificazione dell’unico Corpo di Cristo. Infatti, in questi venti anni dopo la Christifideles laici è venuto più chiaramente in luce che i movimenti e le nuove comunità non sono, né costituiscono, un “blocco” all’interno della Chiesa, né pretendono di essere una corrente definita, articolata e organizzata secondo una comune strategia, e meno ancora una specie di “lobby” per “pesare” nella compagine e nei tessuti ecclesiastici.



Oggi si vedono con maggiore chiarezza le singole e inconfondibili peculiarità, la grande diversità di carismi, metodi, forme comunitarie e missionarie, le diverse modalità di porsi di fronte alla realtà e di servire la Chiesa, esistenti sotto gli “ombrelli” un po’ convenzionali dei termini “movimenti” o “nuove comunità” (e per non cadere nell’interpretazione riduttiva e univoca di “movimento”, ricordiamo la nota resistenza del Cammino Neocatecumenale a farsi inserire dentro questa categoria, ricordiamo don Giussani che parla di realtà parrocchiali come di “movimenti”, e Giovanni Paolo II che si riferisce alla Chiesa stessa come “movimento”).



Ogni realtà, dunque, richiede e merita di essere considerata nella propria singolarità. Questa attenzione, inoltre, ha fatto sì che non ci fosse ignoranza reciproca o separazione e lontananza tra i vari movimenti - e tra questi e altre realtà ecclesiali - ma ha permesso di conoscersi e apprezzarsi nella diversità, a entrare in collegamento secondo le affinità, a promuovere scambi di esperienze e comuni iniziative missionarie e di presenza cristiana nella vita pubblica.



Questo flusso di ricchezza carismatica, educativa e missionaria che arricchisce oggi la vita cristiana ed ecclesiale, non può neanche portare verso una immagine idillica di tutto ciò che confluisce e si sviluppa nella nuova stagione aggregativa. Ci sono realtà che si presentano come movimenti sotto forme o con contenuti che suscitano serie perplessità, e che perciò mancano di ogni autentico riconoscimento ecclesiastico.



Nei movimenti e nelle comunità “riconosciute” non solo si è consapevoli dei limiti e delle miserie, sotto il peso del peccato umano, di coloro che vi appartengono, ma anche della sproporzione tra i doni ricevuti e il loro innesto nella vita personale e comunitaria. In questi venti anni abbiamo assistito anche, in alcuni pochi casi e in specifiche situazioni, all’insinuarsi della tentazione della stanchezza e del conformismo, all’insidia della divisione, all’accomodarsi in compagnie gradevoli e gratificanti, al proporsi presuntuosamente come il solo autentico rinnovamento della Chiesa, a mancanze di attenzione alle indicazioni dei Pastori, a una certa confusione riguardante i diversi stati di vita.





Di fronte all’emergenza educativa



I movimenti ecclesiali e le nuove comunità sono state indicate da S.S. Giovanni Paolo II come “risposta provvidenziale” per “la formazione di personalità cristiane mature, consapevoli della propria identità battesimale, della propria vocazione e missione nella Chiesa e nel mondo” (Discorso al Congresso Mondiale già citato).



Si può ben affermare, infatti, che i movimenti e le nuove comunità sono anche una risposta all’“emergenza educativa” (Papa Benedetto XVI, Discorso alla Diocesi di Roma, 12.VI.2007) del nostro tempo, cioè alla grande e ardua difficoltà di comunicare ragioni, ideali fondati e forti, per il vivere e il convivere, per amare, per saper sacrificarsi nel dono di sé, per mantenere viva la speranza; di dare, in sintesi, un senso e un cammino di compimento alla propria vita.



Questa emergenza trova un punto nevralgico e critico nella difficoltà di trasmissione della fede. Proprio in questo senso, i movimenti e le nuove comunità si sono dimostrate “risposte provvidenziali”, offrendo un cammino educativo alle persone, accompagnandole nella loro formazione cristiana, nel loro essere metodi che aiutano a dare “forma” alla vita investita in tutte le sue dimensioni dall’avvenimento cristiano.



Questo percorso educativo è reso saldo e fecondo quando non solo si è fedeli alla grande tradizione cattolica ma si è capaci di farla diventare esperienza portante della vita nel presente. Per cui è segno di maturità quando la vita stessa condivisa nel movimento è alimentata e arricchita da tutto ciò che la tradizione della Chiesa le comunica: dalla testimonianza apostolica al magistero dell’odierno pontificato, dalla confessione e riflessione dei Padri della Chiesa, alle testimonianze dei santi e al sangue dei martiri, all’eredità di cultura e di opere suscitate dall’evangelizzazione delle nazioni fino alle radicate forme di pietà popolare.



È segno di maturità quando la fede non si riduce a emozione, a entusiasmo sentimentale – “non chiunque mi dice: Signore, Signore…” (Mt 7, 21) – ma cresce come dono di conversione della vita, di tutta la vita, consegnata alla misericordia di Dio, e allo stesso tempo come forma di conoscenza che va creando una sensibilità e una mentalità cristiana che sappia affrontare tutta la realtà. Infatti, un salto di qualità di questa esperienza educativa – che ancora va effettuato in diverse realtà – si avverte quando i movimenti e le nuove comunità aiutano e guidano ad affrontare tutta la realtà personale, sociale, economica, politica, culturale e religiosa alla luce del giudizio cristiano.





Legame con il ministero petrino e inserimento nelle Chiese locali



Dalla loro irruzione nella scena ecclesiale sino a nostri giorni è evidente il particolare legame di affetto, mostrato da tanti ed eloquenti gesti e parole, che si è stabilito tra i Successori di Pietro e i movimenti ecclesiali e le nuove comunità, riconosciuto e sollecitato da quelle parole chiare di S.S. Benedetto XVI, quando ha affermato: “vi chiedo di essere ancora di più, molto di più, collaboratori nel ministero universale del Papa”(Omelia ai Vespri di Pentecoste già citata, 3.VI.2006).



L’allora Cardinale Joseph Ratzinger, nel suo noto saggio sulla “collocazione teologica dei movimenti”, già segnalava che i loro carismi danno corpo a realtà che non si definiscono né hanno un carattere semplicemente locale, ma che portano in sé una carica di universalità e, perciò, fanno riferimento e sono al servizio del ministero petrino, che è per loro essenziale sostegno nella struttura della Chiesa e richiamo a mantener vivo il mandato missionario sino ai confini della terra (cf. Discorso al Congresso Mondiale già citato, 28.V.1998).



L’esperienza dei movimenti e delle nuove comunità mostra come essa si dilati in diversissime localizzazioni territoriali, sociali, culturali ed ecclesiali e aiuta genti dalle diverse biografie, età, temperamenti, appartenenze etniche e nazionali, situazioni sociali e profili culturali a incontrare e a vivere l’avvenimento cristiano.



“Sono stati superati – osservava recentemente S.S. Benedetto XVI – non pochi pregiudizi, resistenze e tensioni”(Discorso ai membri della Plenaria de Pontificio Consiglio per i Laici, 18.V.2008). Anzi, sono sempre più numerosi i Vescovi che invitano esplicitamente l’uno o l’altro movimento o nuova comunità ad essere presenti nella propria Chiesa particolare, che sostengono questa presenza e che affidano loro speciali compiti pastorali. I Seminari di studio per Vescovi, organizzati dal Pontificio Consiglio per i Laici per sostenere la loro sollecitudine pastorale riguardo ai movimenti e alle nuove comunità, sono stati utili strumenti nel diffondere questi atteggiamenti positivi. Sono rari i casi in cui sussistono ancora rifiuti aprioristici, più condizionati da scelte ideologiche o da concezioni “clericali” e “manageriali” nella pastorale organica diocesana che da altro.



Alcune difficoltà si verificano ancora nei rapporti con gli uffici diocesani quando diventano burocrazie ecclesiastiche che pretendono di “coordinare” e dirigere tutto secondo le proprie affinità, misure e programmi, ricadendo nella “tentazione di uniformare ciò che lo Spirito ha voluto multiforme per concorrere all’edificazione e alla dilatazione dell’unico Corpo di Cristo, che lo stesso Spirito rende saldo nell’unità”(Benedetto XVI, Omelia già citata, 3.VI.2008).



In ogni caso, rimane sempre la veridicità e la validità, specialmente per situazioni sofferte, di quell’invito fatto nell’enciclica Redemptoris Missio quando, da un lato, i movimenti e le nuove comunità venivano sollecitati a inserirsi con umiltà nel tessuto sociale, culturale ed ecclesiale delle diocesi – e una sottile superbia farisaica è sempre in agguato nel guardare con sufficienza molte altre esperienze ecclesiali – e, dall’altro, veniva richiesta a Vescovi e sacerdoti un’accoglienza cordiale, magnanima, fatta di paterno accompagnamento e di vigilanza, qualità proprie del buon Pastore, che deve aver cura di non mortificare né soffocare ciò che lo Spirito suscita nella vita dei fedeli, chiamato a condurre la diversità dei doni e delle positive esperienze verso una “pastorale integrata” nell’unità della comunione e della missione (cf. n.72).



Alla fine del Seminario per i Vescovi recentemente organizzato dal Pontificio Consiglio per i Laici, alla luce delle parole che S.S. Benedetto XVI rivolse ai Vescovi tedeschi in  Visita ad limina: “Vi chiedo di andare incontro ai movimento con molto amore”(Vaticano, 18.XI.2006), il Papa disse che in quelle parole veniva già detto tutto, ma volle svilupparle ugualmente, in modo mirabile, rivolgendosi ai Vescovi partecipanti al Seminario.



Bisogna “conoscere adeguatamente la loro realtà – disse in quella occasione –, senza impressioni superficiali o giudizi riduttivi”; infatti, i movimenti e le nuove comunità “non sono un problema o rischio in più che si assomma alle nostre già gravose incombenze. Sono un dono del Signore, una risorsa preziosa per arricchire con i loro carismi tutta la comunità cristiana”. E aggiunse: “quando saranno necessari interventi di correzione, siano anch’essi espressione di ‘molto amore’.



Movimenti, nuove comunità e comunità parrocchiale



“La comunione ecclesiale – scrive la Christifideles laici -, pur avendo sempre una dimensione universale, trova la sua espressione più immediata e visibile nella parrocchia: essa è l’ultima localizzazione della Chiesa”(n. 25).



È vero che una Chiesa priva della rete capillare di parrocchie è inimmaginabile e darebbe una impressione di volatilità e astrazione. Un felice scambio tra parrocchia, movimenti e nuove comunità si dimostra sempre più importante.



Sarebbe inconcludente e fuorviante ricadere ancora nella contrapposizione tra parrocchia e movimenti, spinti dalle opposte tifoserie. Infatti, parrocchie e movimenti non sono il fine della vita cristiana, ma soltanto luoghi e strumenti orientati ad un unico scopo: suscitare, sviluppare e fortificare il legame delle persone con Dio, nella famiglia dei discepoli e testimoni di Gesù Cristo, per grazia dello Spirito Santo.



L’unica ragione per cui esiste la stessa Chiesa stessa, quindi la parrocchia, quindi i movimenti, quindi le nuove comunità…, è di permettere all’uomo di oggi di incontrare Gesù Cristo, di entrare in rapporto con Lui, di conoscerlo e amarlo, di aggrapparsi a Lui come roccia sicura e possibilità concreta di salvezza.



I movimenti e le nuove comunità fanno riferimento alle parrocchie in diversi modi. Alcuni lo fanno soltanto per mezzo dei singoli fedeli, appartenenti ad essi, che partecipano alla vita della propria comunità parrocchiale. Altri sono presenti nella comunità parrocchiale con propri gruppi o comunità. Altri ancora hanno la loro ragion d’essere nel loro inserimento e nel loro servizio nella comunità parrocchiale.



Certamente la parrocchia non può essere ridotta a una sorta di contenitore per gruppi, piccole comunità e movimenti; essa è la casa di tutti i singoli fedeli e delle famiglie, che si avvicinano ad essa e partecipano alla sua vita comunitaria e che, in maggioranza, non appartengono a movimenti o nuove comunità.



La presenza di una rete comunitaria in seno alla parrocchia, però, non fa che rafforzare la sua consistenza e impedisce che i rapporti siano assorbiti dall’anonimato e dalla massificazione che imperversano ovunque. Anzi, l’esortazione apostolica Christifidelis laici chiede alle “autorità locali” di “favorire (…) le piccole comunità ecclesiali di base, dette anche comunità vive, dove i fedeli possano comunicarsi a vicenda la Parola di Dio ed esprimersi nel servizio e nell’amore”(n. 26).



È anche vero che se la presenza in parrocchia di un movimento o di una nuova comunità è molto forte, questa tenderà di fatto a imprimere in tutti gli aspetti della vita pastorale le caratteristiche dei propri carismi e metodi educativi, specialmente se si tratta di parrocchie dove la vita cristiana si trascinava con difficoltà anemica.



Questo non deve provocare problemi. Sarebbe assurdo chiedere a queste realtà di mettere tra parentesi il proprio essere, i propri doni. E inoltre non accade forse da secoli che delle parrocchie siano, di fatto, “affidate” a comunità religiose?



Certamente, bisogna sempre rispettare la persona e il ministero del parroco, che è a capo della comunità, e gli itinerari dei diversi fedeli che partecipano alla vita parrocchiale – nessuno deve sentirsi escluso né emarginato –, accogliendo e valorizzando i vari doni ed esperienze cristiane.



Non devono essere poi motivo di scandalo né di vittimismo le tensioni che non mancano mai nell’edificazione delle comunità parrocchiali e diocesane, sia a causa delle scosse di rinnovamento e di richiamo che i doni dello Spirito e le nuove realtà provocano nel “tran tran” della vita ecclesiastica, che, a volte, dai limiti e deficienze, dall’impazienza e intemperanza, di coloro che animano la vita dei movimenti e delle nuove comunità a livello locali.



È stato molto realista S.S. Benedetto XVI nel suo discorso del 3 giugno 2006 quando, dopo aver esortato all’edificazione dell’unico Corpo di Cristo, sulla base dell’unione “con gli ordini durevoli – le giunture – della Chiesa, con i successori degli apostoli e il successore di san Pietro”, finiva rilevando che, in ogni caso, non è risparmiata a nessuno “la fatica di imparare il modo di rapportarci vicendevolmente”(Omelia già citata, 3.VI.2006).











Coessenzialità tra “carismi e istituzione”



San Paolo afferma: “Vi sono diversità di carismi ma uno è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri ma uno è il Signore; vi sono diversità di operazioni ma uno è Dio che opera tutto in tutti” (1 Cor 12, 4-6).  Diversità di carismi, di ministeri, di operazioni ma un solo Dio, uno e trino. Due conseguenze: dobbiamo riconoscere ed accettare con gioia questa diversità; non possiamo avere una comprensione privata o privatistica dei doni di Dio, ma essere partecipi della fantasia dello Spirito che suscita sempre nuove fondazioni.



Lo Spirito Santo è “dynamis”, cioè potenza. Gesù promette: “riceverete dynamis, forza dall’alto” (At 1,8); questa forza è movimento, è una forza che non conosce stasi. La parola del Signore ci fa comprendere che la diversità deve essere desiderata, deve essere accolta con gratitudine; una visione ristretta offende Dio, impoverisce l’opera di Dio.



San Paolo era solito dire alle comunità “non estinguete lo Spirito” (1 Ts 5,19). Bisogna sradicare una mentalità che vede i ministeri ecclesiali o i ministeri di fatto, non istituiti nella Chiesa, affidati ai laici appannaggio di alcuni o di pochi eletti.



Se è vero che c’è diversità di carismi, dice Paolo, bisogna che ci sia diversità di ministeri e di operazioni, perché “lo Spirito è tutto in tutti” e “a ciascuno è data una particolare manifestazione dello Spirito per l’utilità comune” ( 1Cor 12, 6-7).

In Piazza S. Pietro il Pontefice Giovanni Paolo II spiegava: Sempre, quando interviene, lo Spirito lascia stupefatti. Suscita eventi la cui novità sbalordisce; cambia radicalmente le persone e la storia. Questa è stata l'esperienza indimenticabile del Concilio Ecumenico Vaticano II, durante il quale, sotto la guida del medesimo Spirito, la Chiesa ha riscoperto come costitutiva di se stessa la dimensione carismatica: «Lo Spirito Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma "distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui" (1 Cor 12, 11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali... utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa» (Lumen Gentium, 12).

Ci sono due vie, dunque, definite “coessenziali alla costituzione dogmatica della Chiesa” (ibidem): una via petrina, gerarchica, ministeriale e una via mariana, che individua i carismi, i laici, il popolo di Dio.



È bello pensare questa Chiesa come un insieme armonico di carismi e ministeri, che vive di sinergie, che sente la necessità di incontrarsi e di completarsi, per ricomporre quell’unità dello Spirito che è nel ministero di Cristo servo, qui rappresentato dal nostro Vescovo. Tante membra un solo corpo, tanti ministeri, tanti carismi, tante operazioni che svelano la presenza di Cristo Gesù, il suo corpo mistico in tutte le componenti di questo corpo.

Immaginiamo un fiume e il suo corso. Una è la sorgente della nostra vita ecclesiale: lo Spirito del Signore; una è la foce: la comunità ecclesiale. Dio, uno e trino, elargisce i suoi doni, le sue grazie per vie ordinarie e anche straordinarie, spesso incomprensibili, non preparate da mano d’uomo, ma sempre la comunità ecclesiale ne è la destinataria, perché il regno di Dio sia costantemente edificato.



Tra la sorgente che è Dio e la foce che è la comunità c’è il corso del fiume: sono i doni, i carismi, i ministeri che possono assumere varie diramazioni, quante sono i nostri movimenti, le nostre aggregazioni, anche se tutte  orientate verso un unico sbocco: l’edificazione del regno di Dio. Perché ci sia un fiume che scorre, anche con varie diramazioni, serve un letto su cui le acque si adagiano: questo è la carità. Tutto discende dall’amore! Tutto deve essere fatto per amore! Niente senza amore, perché niente senza colpa se manca l’amore dello Spirito Santo.



Il dono della Pentecoste ci apre, misteriosamente ed efficacemente, ad una nuova comprensione della Chiesa e ad una nuova conversione verso Dio e i fratelli.



Giovanni Paolo II nel 1985 ebbe ha dire che “la Chiesa è essa stessa, in un certo qual modo, movimento”. Cosa significa questo? Che tutte le realtà associative, ecclesiali, traggono il loro movimento dalla chiese. Noi spesso diciamo: “siamo movimenti nella Chiesa”. Giovanni Paolo II ci invita a sottolineare questo altro aspetto: “movimenti dalla Chiesa”. Non solo movimenti che vivono la loro comunione e missione nella Chiesa, ma che traggono il loro movimento dal movimento tutto della Chiesa comunione e missione e assicurano alla Chiesa, mediante il loro specifico movimento, tutto il movimento che la caratterizza.



Pertanto, quando una chiesa sembra rallentare il proprio cammino, è segno che il movimento specifico di ogni realtà non concorre al movimento della Chiesa tutta; al contempo, quando i movimenti non partecipano al movimento della Chiesa tutta, poco dinamici, disorientati, centrati su se stessi, infecondi di opere.



Ancora Giovanni Paolo II, nel 1998, ha ricordato alla Chiesa che i movimenti sono “particolari eventi dello Spirito”, che avvengono dallo Spirito Santo, anima della Chiesa e agente promotore della nuova evangelizzazione. Vogliamo trarre allora dalla Chiesa la nostra specifica missionarietà e assicurare alla Chiesa, quella forza evangelizzatrice che la rende sacramento di salvezza in tutto il mondo.



Certamente, questo Convegno Diocesano ci ha stimolati a cum-prehendere, cioè a raccogliere, a scoprire, insieme, la bellezza e le novità dell’unico Spirito che arricchiscono l’unica Chiesa; a far cum-vertere, cioè a risolvere il divergente – le diverse espressioni di fede – nel convergere in unità. Guardiamo adesso al Cenacolo di Pentecoste. Siamo stati chiamati a formare il “noi” ecclesiale, a superare la tristezza dell’“io”.



È lo Spirito che ci presenta l’altro, che ci permette di accoglierlo, di passare dall’“io” al “tu”, facendoci vivere l’esperienza e la realtà teologica della comunione ecclesiale. Conoscer-ci, allora, per meglio comprender-ci. E non a caso uso la particella pronominale “ci”, perché le espressioni “conoscer-si” e “comprender-si”, spesso utilizzate, sottendono un anonimato e una genericità che mal si addicono alla vera dimensione ecclesiale della fraternità in incontri come quello che abbiamo vissuto.



Come è bello riconoscere, il dono degli altri, che quel dono mi appartiene, mi completa, se è vero che sono un corpo; come è bello specchiarsi nell’altro dono sapendo che in questo confronto  la mia identità si rafforza. Vorrei dirvi: non abbiate mai paura di fare comunione. La diversità è una grazia, ma nel dialogo ogni identità si purifica, impara a rimanere fedele a se stessa, alla vocazione particolare per cui Dio l’ha suscitata. La comunione non è omologazione, ecco perché un corpo deve essere vivo e multiforme nell’armonia di tutte le sue membra.



Il pronome dello Spirito Santo è “noi”, il pronome del mondo è “io”! Tanti io messi insieme non fanno ancora il “noi ecclesiale”, ma spesso un “noi sociologico”! Perché si raggiunga il noi dello Spirito bisogna passare dall’io al tu. Questo passaggio lo compie lo Spirito, che ci accredita gli uni agli altri, perché possiamo comprenderci ed accoglierci. La parola comprendersi: è una parola latina, che significa “raccogliere insieme”, abbracciare le bellezze che lo Spirito ha suscitato in mezzo a noi



Ma stare insieme, significa anche esperimentare nuove vie di conversione ecclesiale, cioè convergere nel cammino ecclesiale. Ci muoviamo da luoghi diversi e dobbiamo credere e testimoniare che le specifiche “vie dei nostri cammini” devono convergere nel cammino di questa Chiesa particolare, così da diventarne espressione sempre più compiuta..



Ecco la “sfida della maturità ecclesiale dei movimenti, che è una sfida di conversione, il convergere ecclesiale dei movimenti, cioè il risolvere in unità, nel cammino della Chiesa locale.



Essere, allora, disponibili a dipendere gli uni dagli altri, così che non prevalga la “presunzione” o la “superiorità” del dono ricevuto, pur dinanzi ai frutti spirituali che mi riconducono all’unicità del particolare dono ricevuto da Dio.



Il pericolo della superbia intellettuale, dell’intelligere il “movimento della Chiesa” nella peculiarità del mio specifico movimento, rischia di mortificare le singole esperienze e di impedire il completamento reciproco. 





“Comunione ecclesiale”: alcune provocazioni



Una Chiesa somigliante a Dio, è espressione di quella volontà di perfezione che Gesù mediante lo Spirito rende possibile in noi. Più viviamo la comunione, più somigliamo a Dio. La comunione non è vicinanza; ci sono persone che pur stando vicine sono divise: guardate quante coppie, vivono sotto lo stesso tetto, dormono nello stesso letto, ma non sono in comunione, sono lacerate. La comunione è una disponibilità del cuore, ma è anche un invito a morire. La comunione non è qualcosa da fare. È un fatto già avvenuto; mediante il sacrificio di Gesù è già stata fatta pace tra il cielo e la terra, dono che lo Spirito sigilla nella nostra esperienza di fede. Noi possiamo solamente “non fare comunione”, ma Dio ha già fatto comunione con noi.



Ecco ciò che Gesù “ha fatto”. La comunione è un fatto che con l’aiuto dello Spirito non ci stanchiamo di proclamare. Il sacerdote, all’inizio della celebrazione eucaristica, ci “offre” questo dono, come primizia della comunione con il corpo e il sangue di Gesù: “la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi”.



Rinunziare alla comunione è decidere di morire. Dice S. Agostino: “La negligenza nella carità è la causa di tutti i mali. I carismi non solo non ci tengono conciliati e uniti, ma separano anche quelli che stanno uniti. La carità è capace di conciliare e di fare un sol corpo di coloro che, a causa dei carismi si erano disuniti”. E subito aggiunge che questa realtà è “essa stessa carisma”.



1.      Passare dallo scomunicare al comunicare

Il contrario di comunicare è scomunicare; comunichiamo poco fra noi, magari abbiamo tante occasioni per stare insieme, ma non ci sforziamo di comunicare. Qual è il rischio se non si comunica? Non si fa comunione!, non si mette in comune Gesù, l’oggetto della nostra fede. Quando non si comunica è facile che si passi allo scomunicare. Si comunica male o si comunica contro e si entra nella confusione. Gesù ci ricorda che la confusione, i sospetti, i dubbi, hanno per padre la menzogna, lo stesso satana (cf Gv 8, 43-44). Il contrario della verità è la menzogna che sfalda la comunione e porta alla divisione.



2.      Dal sospetto al rispetto

C’è bisogno, in questo nostro tempo, di una “cultura del rispetto” generata dallo stupore della grazia, che vinca la “cultura del sospetto” generata dal dubbio. Portiamo la parola “rispetto” nella accezione evangelica. I Farisei, i Sadducei creavano sempre sospetto intorno a Gesù. Perchè Gesù era duro con loro? Perché pur conoscendo la verità, non la sapevano applicare o, peggio ancora, non la volevano applicare. San Paolo dirà: “E’ una trasformazione la venuta dello Spirito”. Cambia il modo di pensare, cambia il modo di parlare, di giudicare, di operare” così da affermare:  “ora abbiamo il pensiero di Cristo” (cf 1 Cor 2). Ecco il senso del rispetto: se non si ha il pensiero di Cristo si hanno solo sospetti, che alimentano la sfiducia. Il mondo avanza tra i sospetti. Noi dobbiamo essere testimoni di un’altra cultura, nata proprio a Pentecoste: chi sa stare alla presenza di Dio, sa stare anche davanti agli uomini e riconoscerli fratelli.



3.      Passare dal tavolino al pavimento”

Stiamo troppo a tavolino e poco sul pavimento. Per rimanere ancora su questa immagine, diciamo che lo stare a tavolino è simboleggiato dai “gomiti” e lo “sgomitare” ci richiama più la sapienza del mondo che quella evangelica. Le ginocchia sono simbolo del Vangelo della preghiera, del pregare, più che del parlare. Gesù stava in ginocchio nell’ora del Getsemani; supplicava, pregava prostrato e amareggiato constatava che gli apostoli non riuscivano a fargli compagnia. Dobbiamo ritornare alle radici dell’amore per essere rigenerati nella comunione. E l’amore si supplica, mediante la preghiera. La Chiesa non può prescindere da questo gesto se vuole avere le stive piene d’amore e vantare riserve d’amore. Afferma don Oreste Benzi: “per stare in piedi bisogna stare in ginocchio”. Solo chi sa perseverare in ginocchio sa stare in piedi!



4.      “Dalla funzione all’unzione”

Le nostre funzioni ecclesiali, le nostre attività sono un riflesso dell’opera di Dio. Ma se non c’è l’unzione dello Spirito, l’unzione della preghiera, dell’amore che le rinnovano, rendendole segno della presenza di Dio, noi possiamo correre il rischio di non servire autenticamente la Chiesa, ma noli stessi, i nostri programmi. “Solo l’unzione non mente” ricorda Giovanni il teologo (cf 1 Gv 2,27).Mediante l’unzione dello Spirito, come ricorda Gesù nella sinagoga di Nazareth (cf Lc 4), ci è dato di somigliare a Cristo, di compiere le sue stesse opere. Nell’unzione è una sapienza divina, un ardore evangelico, una irresistibile forza che dà alle nostre funzioni ecclesiali quei riflessi divini abbaglianti che contagiano i più deboli e muovono a conversione di dubbiosi. Quante funzioni non sono irrorate dall’unzione dello Spirito e risultano inefficaci. È questa la lezione di Pentecoste: partire dallo Spirito e non dall’uomo, dai suoi doni e non dalle nostre abilità.



I Movimenti, esplicitazione del “popolo di Dio”



Nella sua prima prolusione da Presidente della CEI, il card. Angelo Bagnasco chiedeva di “essere vicini alla gente per accogliere e servire, chiamati ad essere benedizione per i nostri fratelli” (Assemblea Generale dei Vescovi, 21 maggio 2007).



Questa è la Chiesa: una realtà umana, un popolo visibile, una presenza concreta nella storia, che rende vivo il mistero divino d’amore che l’ha generata e la mantiene, sfidando i secoli e ogni sorta di male. 



Il concetto di “popolo di Dio” è un concetto spirituale, non scientifico. È significativo che né le filosofie, né le scienze umane abbiano dato molta importanza a questo concetto. Il popolo è una realtà essenziale per comprendere il cristianesimo di ogni tempo e i fenomeni di risveglio carismatico che lo hanno attraversato lungo i secoli.



Un concetto che ritorna d’attualità, che è stato troppo trascurato, anche dalla teologia post conciliare, spesso eliminato dal vocabolario corrente, perché sembrava una categoria troppo sociologica, specie quando poteva evocava il marxismo.



Il Vaticano II riportò all’attenzione del mondo intero una nuova nozione di Chiesa. La gerarchia non è il solo elemento attivo e i laici non sono un mero oggetto, privati di iniziativa e di responsabilità. Il cristiano è un membro del popolo di Dio, in tutte le attività umane e dentro la cultura di un popolo specifico. L’insieme di tutti i popoli, la loro complessa e variegata realtà umana, fanno l’universalità della Chiesa, il popolo di Dio.



Essere membro del popolo di Dio non significa separarsi dagli altri per praticare atti separati, in quanto sacri, religiosi (visione liturgico-sacramentale della Chiesa). Questi, seppure indispensabili, non costituiscono tutta la vita e la realtà della Chiesa, poiché i cristiani offrono a Dio la loro vita in mezzo al loro popolo (dimensione missionario-carismatica della Chiesa).



Cosa ci costituisce un popolo, il popolo di Dio? La vita comune, la vita sofferta. Chiesa di popolo, significa che non siamo un raggruppamento di individui, in cui ciascuno si preoccupa per se stesso. Attenti: c’è il rischio di precipitare nella stessa deriva individualistica che caratterizzò la fine degli anni Sessanta, anni della contestazione, proprio nel tempo in cui il Concilio ci concludeva e annunciava al mondo l’opera di rinnovamento dello Spirito. La bandiera dell’individualismo sventolava forte allora, sta tornando a sventolare anche oggi, in un tempo che non è anticlericale nella facciata, ma nel profondo, anticristiano.



Individualismo è sinonimo di relativismo: ed ecco l’orgoglio elevato all’onnipotenza, l’apostasia, il rifiuto di Dio. Ecco l’inferno.



La Chiesa è un popolo perché genera una comunione spirituale, che si incarna in una comunione visibile. La nostra condivisione non è solo un fatto solo spirituale, ma è fatta di contatti umani, di convivenze comunitarie, di un agire comune, che include realtà materiali, implica fattori puramente umani, relazioni fatte di simpatia, di affinità elettive, ma anche di scontri, di cadute, di disaffezioni. Un popolo che vive, che comunica sentimenti, emozioni. Un popolo incarnato.



Un popolo di attesa, di fiducia, di destino, che lotta contro il male, che cade e si rialza. Un popolo che conosce il martirio morale, culturale e sociale della fedeltà a Cristo, in famiglia, nel posto di lavoro, con le persone che incontra.



Un popolo che ha un’identità forte, subito visibile, che attrae anche quando sembra essere contestata. Un popolo che non ha paura, che guarda in faccia Dio senza nascondersi dinanzi al peccato. Un popolo che guarda in faccia Satana quando bisogna muovere guerra al peccato.



Un popolo profetico, che non si è stancato di ascoltare Dio, di interrogare Dio, di cercare le soluzioni di Dio. Un popolo che ha il coraggio di parlare, di dire la verità, di fare gli interessi di Dio, di discernere il bene dal male e il male dal bene in un tempo in cui tutti dicono “che male c’è’”, mentre già il male ha catturato l’uomo e lo sta distruggendo.



Non un popolo separato, in un territorio separato, in una storia separata, parallela. Non un popolo accanto ad altri, ma un popolo dentro gli altri.



Perché non c’è fede senza incarnazione umana. Non è vera fede se non implica la sua realizzazione in una realtà umana, fatta di gesti, di segni, di incontri, di amicizia, di solidarietà, di dialogo, di apertura alla vita, di difesa del bene, di condanna del male.



Il popolo di Dio è una realtà dinamica, perché costantemente allertata e movimentata dallo Spirito Santo. Non è una giurisprudenza, né una pedagogia, né una sociologia: è una pneumatologia, cioè una realtà che obbedisce allo Spirito, che vive la sua vera libertà piacendo a Dio, non agli uomini. Lo Spirito è legge interiore, è principio unificatore, è anelito alla purezza, alla giustizia, alla promozione umana.



Il credente è reso dallo Spirito capace di rispondere. Questa “abilitazione a rispondere” (respons-abilità) è dono dello Spirito.









In stato di missione



Un altro fatto che impressiona nell’esperienza dei movimenti e delle nuove comunità in questi venti anni è l’impeto missionario che ha investito la vita delle persone e delle comunità cristiane. È proprio la loro esperienza a mostrare che la missione non è un compito che si aggiunge alla vocazione e alla vita cristiana, non è un programma o una strategia pastorale, non è affatto un proselitismo fanatico, ma la comunicazione del dono dell’incontro con Cristo, la condivisione della verità, della bellezza e della felicità incontrata e destinata al bene di tutti.



Essa è vissuta come proposta di condivisione della propria esperienza fatta alla libertà degli altri, prossimi o lontani, per passione per la loro vita e il loro destino. In tal modo il richiamo a una “nuova evangelizzazione”(Giovanni Paolo II, all’Assemblea del CELAM, Port-au-Prince, 9.111.1983) è tanto più urgente in quanto moltitudini di uomini vivono “come se Dio non esistesse”(Christifideles Laici, 34) e “il numero di coloro che ignorano Cristo e non fanno parte della Chiesa è in continuo aumento, anzi dalla fine del Concilio è quasi raddoppiato”(Redemptoris Missio, 3).



“Occorre un radicale cambiamento di mentalità per diventare missionari – ripeteva con insistenza Giovanni Paolo II -, e questo vale sia per le persone che per le comunità. Il Signore chiama sempre a uscire fuori di sé stessi, a condividere con gli altri i beni che abbiamo, cominciando da quello più prezioso che è la fede. Alla luce di questo imperativo missionario si dovrà misurare la validità degli organismi, movimenti, parrocchie e opere di apostolato della Chiesa. Solo diventando missionaria la comunità cristiana potrà superare divisioni e tensioni interne e ritrovare la sua unità e il suo vigore di fede”(Novo Millennio Ineunte, nn. 31.43) .



Non mancano, in verità, situazioni in cui l’entusiasmo missionario, caratteristico dell’origine del movimento o della comunità, determinante una fase di grande slancio, sembra affievolirsi, richiamando a un ritorno alle sue sorgenti carismatiche; tuttavia prevale e persiste questo dinamismo missionario come corrente forte di vita cristiana che si comunica per mezzo di queste nuove realtà.



Colpisce, in special modo, quella disponibilità missionaria ad andare verso tutti i confini, a portare la propria esperienza a nuovi popoli e nazioni, in particolar modo in terre di estrema scristianizzazione o dove la presenza della Chiesa è in situazione di esigua minoranza e/o pesantemente limitata nella propria libertà. Colpisce anche la testimonianza cristiana offerta nei più diversi ambienti della convivenza civile, fino ai “nuovi areopaghi”, lì dove la presenza della Chiesa su base territoriale non arriva a incidere nella trama della vita concreta delle persone, nel loro lavoro e negli interessi portanti della loro esistenza.



L’esperienza dei movimenti e delle nuove comunità richiama spesso tutta la comunità cristiana all’importanza e alla necessità di una presenza cristiana, fino a una “plantatio” della Chiesa, nella scuola e nell’università, negli ospedali, nei centri culturali e nei laboratori di ricerca, nei mass media, nelle imprese e nelle fabbriche, nell’amministrazione pubblica e nei parlamenti, nelle periferie umane dei bisogni e delle povertà.



Se i movimenti e le nuove comunità non devono avere una immagine grossolana della parrocchia ma valorizzare la sua missione indispensabile e di grande attualità, partecipando in modi diversi alla sua vita comunitaria, è chiaro che sarebbe un impoverito “parrocchialismo” pretendere di investire la ricchezza carismatica, educativa e missionaria di tutti i movimenti e le nuove comunità soltanto nel lavoro propriamente parrocchiale.



Occorre guardarsi bene dal trasformare questa istituzione in una struttura che pretenda di inglobare in sé ogni forma di vita cristiana, sia individuale, sia di gruppo. Papa Giovanni Paolo II, ha osservato che “è certamente immane il compito della Chiesa ai nostri giorni e ad assolverlo non può certo bastare la parrocchia da sola. (…) Infatti, molti luoghi e forme di presenza e di azione sono necessari per recare la parola e la grazia del Vangelo nelle svariate condizioni di vita degli uomini d’oggi, e molte altre funzioni di irradiazione religiosa e d’apostolato d’ambiente, nel campo culturale, sociale, educativo, professionale, ecc., non possono avere come centro o punto di partenza la parrocchia”(Christifideles Laici, 26).



Si può affermare, dunque, che il radicamento nell'identità cristiana, cattolica, non si realizza rinchiudendosi in “ghetti” a scopo protettivo, o accomodandosi in compagnie gradevoli e gratificanti, ma è condizione e impeto rinnovato per farsi presenti in modo esplicito, visibile, senza timori né calcoli, in tutti gli ambienti e le situazioni della vita come comunicatori dello straordinario dono dell'incontro con Cristo.



Per questo stesso motivo gli incontri che avvengono nell’ordinario del quotidiano si caricano di positività, si moltiplicano, si approfondiscono. I movimenti sono così soggetti di evangelizzazione, promotori di ecumenismo nelle più variegate esperienze di amicizia, preghiera e collaborazione con cristiani di altre confessioni e comunità - anche nella sofferenza di una comunione incompleta -, capaci tanto di valorizzare il senso religioso nell'incontro con credenti delle grandi tradizioni monoteistiche o di altre tradizioni religiose, come di combattere ogni “fondamentalismo”, impegnati in dialoghi culturali aperti a tutto campo.



Segno di questo slancio missionario, che tende ad abbracciare tutti i bisogni delle persone e dei gruppi umani incontrati, sono anche le molteplici e diverse opere promosse dagli stessi movimenti e nuove comunità o nate e gestite dalla libera iniziativa e responsabilità di coloro che ne fanno parte. In questi ultimi decenni abbiamo visto il moltiplicarsi di nuove realtà scolastiche e universitarie, di centri di formazione professionale e di aiuto allo studio, di centri culturali, di nuove opere sanitarie ed ospedaliere, di comunità di recupero per tossicodipendenti e delle schiave della prostituzione, di case-famiglie, di accoglienza di handicappati e di minori abbandonati, di numerosi e diversi servizi di formazione al matrimonio, alla famiglia e a una cultura della vita, di opere in favore delle donne in situazioni svantaggiate e sofferte, di opere in favore dei migranti e dei rifugiati, di servizi ai poveri, ai disoccupati, agli affamati, e molte altri ancora.



I movimenti e le nuove comunità partecipano così alla ricostruzione e al rinnovamento di un tessuto vario di opere e servizi, in cui si dilata la caritas Christi e si rende ragione della speranza che essa suscita e alla quale educa, affrontando in modo duraturo ed efficace i bisogni umani e sociali, praticando una fattiva solidarietà, sussidiarietà e corresponsabilità, e offrendo un prezioso contributo per il bene comune, con una cura speciale verso coloro che ci interpellano attraverso i diversi volti della povertà. Papa Giovanni Paolo II parlò di una “carità delle opere”(Novo Millennio Ineunte, 50).



I movimenti e le nuove comunità sono anche fucine di numerose vocazioni sacerdotali, compagnie che le sostengono nel cammino di crescita, di formazione, di vita sacerdotale e di esercizio del ministero. Molti di questi candidati al sacerdozio passano per i seminari diocesani o inter-diocesani, e molti altri sono in seminari o residenze di formazioni spirituale e pastorale legate all’esperienza di movimenti o di comunità, sempre nel rispetto della “Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis”, e partecipano ai corsi di studi filosofici e teologici negli istituti superiori appositamente eretti dall’autorità ecclesiastica per questo fine. Queste sono condizioni ineludibili.



Fatto significativo è la nomina di vescovi e di parroci, sebbene ancora in misura limitata, coinvolti in prima persona nell’esperienza dei movimenti e delle nuove comunità, che dimostrano come queste aggregazioni carismatiche non siano affatto un limite o un ostacolo per vivere le esigenze e le responsabilità oggettive di questi ministeri, ma un sostegno potente per assumerle fedelmente al servizio di tutta la comunità cristiana, valorizzando tutto ciò che lo Spirito suscita in essa, attraverso diversi doni, vie ed esperienze.



Nell’alveo di movimenti e nuove comunità sono fiorite anche numerose vocazioni religiose, spesso contemplative, e sono nate o si sono rinnovate comunità religiose. Dall’esperienza cristiana vissuta grazie ad essi, sono sorte anche nuove forme di consacrazione tra i fedeli laici, nella radicalità della novità di vita portata dal battesimo, secondo “l’indole secolare” (Christifideles Laici, 56; non bisognerebbe confonderle con alcune esperienze di consacrazione che si dicono “laicali” ma che manifestano, dall’uso dell’abito alla disciplina di vita, tratti distintivi della vita monastica, incluse forme tradizionali di vita consacrata.





I Movimenti per un umanesimo ordinato secondo lo Spirito



Lo Spirito ci apre alla solidarietà con il mondo. L’inquietudine del mondo è già invocazione della nostra speranza. La degenerazione del mondo è già richiesta di figliolanza divina. Il peccato del mondo è già ricerca della grazia. Quanti tesori rimangono ancora nascosti! Lo Spirito non ci chiede di rispondere con l’intimismo della fede (deriva), né con un entusiasmo ir-responsabile (assenza).



È nostra responsabilità di fede che questo mondo sia ordinato dallo Spirito di Dio e disponibile agli autentici bisogni dell’uomo. Dobbiamo credere che lo Spirito di Dio vuole permeare il mondo della tecnica, della scienza, dell’economia che spesso sentiamo ostili alla nostra visione della vita. Occorre che le vie del progresso, che mai prima del Novecento l’uomo aveva conosciuto nella forza e nel potere travolgente con cui oggi si presentano, siano disponibili allo Spirito. 



Dio non si pone contro questo mondo da lui creato: lo vuole pieno di quello Spirito con il quale ci ha creati e ci tiene in vita. Quando Gesù parla del mondo contrario allo Spirito di Dio, ci parla di quel mondo senza lo Spirito di verità, alieno e allergico alla Parola di Dio, quel mondo che non vuole la deificazione dell’uomo, ma la sua materializzazione fino a ridurlo ad un nulla; quel mondo che non ha per regola aurea l’impegno generoso della carità, ma il disimpegno crudele dell’egoismo.



La coscienza sociale di un popolo può essere risvegliata, può farsi nuova cultura, novità di vita, solo a partire dai valori dello Spirito. La vera rivoluzione è spirituale. La vera rivoluzione è combattere il prevalere dell’egoismo e dell’ingiustizia, che sono la causa prima dei nostri peccati e delle nostre passioni, nella nostra vita personale e nella vita sociale.



Benedetto XVI, il 13 maggio 2004, sull’“L’identità dell’Europa” così si esprimeva: «L’Europa, proprio in questa ora del suo massimo successo, sembra diventata vuota dall'interno, paralizzata in un certo qual senso da una crisi del suo sistema circolatorio, una crisi che mette a rischio la sua vita, affidata per così dire a trapianti, che poi però non possono che eliminare la sua identità. A questo interiore venir meno delle forze spirituali portanti corrisponde il fatto che anche etnicamente l'Europa appare sulla via del congedo. C’è una strana mancanza di voglia di futuro».



Ora, per rifare il tessuto cristiano della società a noi laici cristiani è chiesto, senza deroghe, di saper superare la frattura tra Vangelo e vita che permane nelle nostre esistenze pubbliche e private, ricomponendo così, proprio nella nostra quotidiana attività, l'unità di una vita che nel Vangelo trova ispirazione e forza per realizzarsi.

A tal proposito il Concilio Vaticano II ha affermato: «Il distacco che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo» Gaudium et Spes, n. 43).



Il binomio “fede e morale”



Non c’è dubbio che oggi, non meno di ieri, sia da riformulare con responsabilità e chiarezza il rapporto tra “morale e fede” . Lo impone la nostra coscienza cristiana, dal momento che morale e politica rientrano proprio nella sfera della coscienza intesa come atto che unisce la nostra conoscenza razionale con il nostro libero agire. Così che è vorrei, da subito, ribadire che la politica, l’economia, senza morale, sono sempre impolitiche e antieconomiche. Il fine della politica è intrinsecamente sociale, perciò razionale e morale, e dal momento che il fine della politica  consiste nel perseguimento e nella realizzazione del bene comune, per essere davvero a vantaggio di tutti non può prescindere dal bene morale.



La moralità presuppone la maturazione di una coscienza che deve essere educata, illuminata, formata dalla riflessione razionale in un clima di libertà, per discernere con convinzione, con coerenza e sicurezza il bene dal male.



E così ci imbattiamo subito in un problema imperante, che già il profeta Isaia, al cap. 5, denuncia un grave delitto dinanzi a Dio e agli uomini, un delitto che deturpa la storia e altera la cifra della nostra vera umanità: “guai a chi chiama il bene male e il male bene”.

Ebbene è quello che va accadendo e l’alterazione della coscienza comune si fa sconvolgimento morale della coscienza sociale. La coscienza è sempre stata presentata come il baluardo della libertà di fronte alle limitazioni dell’esistenza imposte dall’autorità. Ma possiamo, oggi, dire la stessa cosa, o forse all’autorità si è sostituito un potere scomposto fatto di desideri, di ribellioni morali, di arbitri sociali, così che tutte le verità essenziali sull’uomo, lasciano il posto a verosimiglianze improbabili sull’uomo, in nome di un esistenzialismo sfrenato e innaturale?

Diciamocelo francamente: non si corregge l’immoralità con una predica domenicale o scrivendo articoli nei giornali. Bisogna correggere la vita pubblica; bisogna moralizzare la vita pubblica; bisogna immettere nella società una nuova generazione di uomini e donne con una forte passione, animata dalla carità cristiana, che si impegnino a ricercare il bene pubblico basato sulla morale, che sentano nella loro coscienza il primato l’impero della morale fecondato dall’amore per Dio e per gli uomini. Uomini e donne che abbiano una concezione religiosa della vita da cui deriva il senso della responsabilità morale  e della solidarietà sociale.

Sant’Agostino affermava che “se la fede non è pensata allora è nulla” (in De Praedestinatione sanctorum, 2,5). Quindi più che “ripensare” al passato, dobbiamo “pensare” il presente come uomini spirituali, cioè valutando la realtà come uomini – ricorderebbe S. Paolo –  che hanno “il pensiero di Cristo” (1 Cor 2, 16).



Il credente è il realista per eccellenza. Non si rifugia nostalgicamente nel passato, né invoca un futuro depressivo o repressivo. Il cristiano è colui che con S. Paolo ripete: «La realtà è Cristo» (Col 2, 17). La differenza la fa Cristo. Il dilemma è tutto qui. Se Cristo c’è o non c’è. Perché se Lui non c’è, allora anche io sono assente, insignificante, impotente. O la mia fede genera Cristo nella storia, o il mio essere laico nel mondo profumerà di morte e non di vita, non basterà a salvare la mia anima, figurarsi essere di aiuto per gli altri.



La nostra laicità parte dal reale, lo include, lo assume, aspira a trasfigurarlo. È una laicità aperta all’uomo perché già spalancata a Cristo. Se è chiusa la porta della nostra fede in Dio, sarà sigillata la porta della nostra fiducia nell’uomo. La misura della nostra laicità è insieme uno spazio antropologico e teologico inscindibili: l’uomo e Dio; ancor meglio l’uomo in Dio e Dio nell’uomo. Lo illustra la meravigliosa “magna charta” sul laicato cristiano – la “Christifideles Laici” – di cui è ricorso nel 2008 il ventesimo dalla pubblicazione.



Questa Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II ha spalancato un nuovo e magnifico orizzonte ai laici, interpellati con coraggio e fiducia a non disertare la storia, invitati «a guardare in faccia questo nostro mondo» (n. 3).



La realtà si può guardare, giudicare, abbracciare in due modi: obbedendo allo spirito di questo mondo, oppure obbedendo allo Spirito di Dio. Da una parte le tenebre della menzogna, dell’inganno, della falsità; dall’altra la luce della verità, della sincerità, dell’onestà.



La nostra laicità è lo spazio creativo dell’amore, di un amore compassionevole per questo nostro mondo. La nostra laicità è la capacità interiore di vedere il bene che manca tra le pieghe del male evidente, delle strutture di peccato che colpevolmente stanno espatriando Dio dalla storia. Un Dio che, al massimo, si vorrebbe come “un al di là”, un Dio scomodo, troppo esigente per essere parte di questo nostro tempo ondivago. Cristo, invece, si è posto come Signore del “di qua” e a noi - per fede - chiede di governare con Lui questo nostro mondo.



I movimenti trovano il massimo livello di convergenza nell’uomo, che invece sta diventando nel nostro tempo il massimo livello di conflitto. Attorno all’uomo, al suo destino, ai suoi diritti nativi si sono formati schieramenti molto pericolosi e stanno muovendo guerra»



L’uomo non può essere ideologizzato. E questo significa che la nostra missione evangelizzatrice deve riportare in modo molto chiaro il primato del Vangelo rispetto a idee che hanno come obiettivo quello di rendere l’Io come  un’entità assoluta, vera e propria idolatria, frutto del relativismo odierno. L’Io assoluto è il peggior nemico dell’uomo.



“Evangelizzare significa oggi insegnare agli uomini l’arte di vivere”, affermava il card. Ratzinger in occasione del Giubileo dei Catechisti nell’Anno 2000. Quindi c’è una rieducazione alla fede, alla missionarietà che deve ridare all’uomo la sua dignità. Si tratta di recuperare in pienezza l’antropologia cristiana. Il discorso intorno all’uomo diventerà fondamentale per la nuova evangelizzazione e per l’impegno dei movimenti.

C’è, talvolta, tra noi, una sorta di complesso d’inferiorità dinanzi all’ineluttabile male che si accanisce sulla storia, un’inquietudine che ci assale dinanzi al tentativo corrente di privare il cristianesimo di ogni rilievo pubblico. Si vorrebbe una sorta di cristianesimo svilito, diluito, anonimo, una chiesuola in cui riparare per trovare protezione.

Un’inquietudine che io ritengo salutare, che dovrebbe svegliare dal sonno, dal torpore spirituale che spesso alligna tra di noi. Ecco perché è imprescindibile che la parola “bene comune” si coniughi con “identità cristiana”. Potrà mai una identità cristiana mondanizzata, relativizzata, perbenizzata, generare il “bene comune”, così come esige la Tradizione cristiana dei martiri e dei santi che ci hanno preceduto?

La nostra fede non è mondana, ma è per il mondo. È coinvolta con il mondo e deve coinvolgere il mondo.

Ebbene, come ha scritto un celebre martire cristiano evangelico del Novecento, Dietrich Bonhoeffer, «noi cristiani dobbiamo tornare all’aria aperta; dobbiamo tornare all’aria aperta del confronto spirituale con il mondo» (in “Resistenza e Resa”).

Dal suo esilio londinese, nel giugno 1938, giudicando le rivoluzioni che la storia coeva aveva drammaticamente registrato (la socialista, la nazi-fascista, la messicana), così si esprimeva nel suo scritto “The preservation of the Faith”: «Per noi, la prima, vera, unica rivoluzione fu quella del cristianesimo. Cristo portò in terra un Vangelo che ripudia qualsiasi pervertimento e oppressione umana, qualsiasi predomino del mondo sullo spirito. La vera rivoluzione comincia con una negazione spirituale del male e una spirituale affermazione del bene. Il nostro mondo è un mondo che deve essere creato a nuovo con fiducia nel pensiero cristiano, il quale è sempre vivo e sempre potente per le trasformazioni».

Un’analisi efficacissima, irrinunciabile, basata sulla singolare convergenza fra il Cristianesimo e ciò che è autenticamente umano. In un’altra opera dello stesso periodo londinese don Sturzo scriverà: «L'errore moderno è consistito nel separare e contrapporre Umanesimo e Cristianesimo: dell'Umanesimo si è fatto un'entità divina; della religione cristiana un affare privato, un affare di coscienza o anche una setta, una chiesuola di cui si occupano solo i preti e i bigotti. Bisogna ristabilire l'unione e la sintesi dell'umano e del cristiano; il cristiano è nel mondo secondo i valori religiosi; l'umano deve essere penetrato di Cri­stianesimo. Ecco perché è un errore combattere il nazismo soltan­to in nome della religione cristiana. Bisogna contemporaneamente combatterlo in nome dei valori umani contenuti nella libertà in­tegrale e in nome della religione cristiana che regola questi valori e li santifica per dei fini più alti» (in “Miscellanea londinese”, vol. III).

È questa una splendida traduzione dell’espressione “bene comune”.

Ogni epoca storica vive il tempo della crisi. Qualcuno dice: “Mala tempora currunt”. I tempi sono difficili. Ma non sono mai stati facili e mai lo saranno! «Vivete bene il tempo e lo cambierete; e se lo cambierete non avrete più da lamentarvi» (in “Discorsi” 311, 8,8) ricordava Sant’Agostino alla generazione di cristiani del suo tempo.

Per rifare il tessuto cristiano della società a noi laici cristiani è chiesto, senza deroghe, di saper superare la frattura tra Vangelo e vita che permane nelle nostre esistenze pubbliche e private, ricomponendo così, proprio nella nostra quotidiana attività, quell'unità di una vita che nel Vangelo trova ispirazione e forza per realizzarsi.

A tal proposito il Concilio Vaticano II ha affermato: «Il distacco che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo» (in “Gaudium et Spes”, n. 43).

È incredibile assistere alla domanda di molti cristiani del nostro tempo che si chiedono: “ma cosa c’entra la fede con la mia vita, con la mia vita pubblica, con i miei principi morali, con le mie scelte familiari”?

Vorrei che a rispondere fosse quel grande genio del Novecento che è stato il servo di Dio Paolo VI, che patì i travagli di un’epoca consumandosi nella fatica di trovare adesione convinta alla sua lettura della storia. Nella Enciclica sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, “Evangelii nuntiandi”, Paolo VI scrive: «È indispensabile raggiungere e quasi sconvolgere, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell'umanità, che sono in contrasto con la parola di Dio e con il disegno di salvezza» (n. 19).

Un quadro dettagliatissimo ed esigentissimo al contempo. Ma una sfida ineludibile. Di questa evidenza si è fatto interprete anche Papa Benedetto XVI, in occasione del Viaggio negli Stati Uniti. Così si è pronunziato il 18 aprile, parlando ai Vescovi degli Stati Uniti: «È  forse coerente professare la nostra fede la domenica e poi, lungo la settimana, promuovere pratiche di affari o procedure mediche contrarie a tale fede? È forse coerente per cattolici praticanti ignorare o sfruttare i poveri e gli emarginati, promuovere comportamenti sessuali contrari all’insegnamento morale cattolico, o adottare posizioni che contraddicono il diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte naturale? Occorre resistere ad ogni tendenza a considerare la religione come un fatto privato. Solo quando la fede permea ogni aspetto della vita, i cristiani diventano davvero aperti alla potenza trasformatrice del Vangelo (18.IV.2008)

Questa nostra fede genera un’identità che personifica, non che aliena. Genera un corpo sociale, umano e divino insieme, che è il nostro essere la Chiesa nel mondo.





Il binomio “morale cristiana” e “politica”



“C’è chi pensa che la politica sia un arte che si apprende senza preparazione, si esercita senza competenza, si attua con furberia. Ma è anche opinione diffusa che alla politica non si applichi la morale comune, e si parla così di due morali: quella dei rapporti privati (che non sarebbe morale, né moralizzabile) e quella della vita pubblica. La mia esperienza lunga e penosa mi fa concepire la politica come saturata di eticità, ispirata all’amore del prossimo, resa nobile dalla finalità del bene comune”.  Così scriveva ne “Il Popolo”, il 16 dicembre 1956, all’età di 86 don Luigi Sturzo.



Mi pare di fondamentale interesse questa definizione sturziana, perché coloro che concepiscono la morale come un fatto puramente individualistico o individuale, mancano della nozione di vera moralità, che ha sempre carattere collettivo e sociale; il nome morale deriva da mos, costume, ma il costume buono; l’altro è il mal costume.



Ora rispetto a tutte le altre possibilità di declinare la parola “morale”, la morale cristiana non solo definisce i rapporti tra gli uomini, ma lega i rapporti fra gli uomini con i rapporti con Dio, dando alla morale razionale una nozione religiosa, elevandola cioè dal piano naturale a quello soprannaturale.



Non c’è dubbio che oggi, non meno di ieri, sia da riformulare con responsabilità e chiarezza il rapporto tra “morale e politica” . Lo impone la nostra coscienza cristiana, dal momento che morale e politica rientrano proprio nella sfera della coscienza intesa come atto che unisce la nostra conoscenza razionale con il nostro libero agire. Così che è vorrei, da subito, ribadire che la politica, l’economia, senza morale, sono sempre impolitiche e antieconomiche. Il fine della politica è intrinsecamente sociale, perciò razionale e morale, e dal momento che il fine della politica  consiste nel perseguimento e nella realizzazione del bene comune, per essere davvero a vantaggio di tutti non può prescindere dal bene morale.



La moralità presuppone la maturazione di una coscienza che deve essere educata, illuminata, formata dalla riflessione razionale in un clima di libertà, per discernere con convinzione, con coerenza e sicurezza il bene dal male.



E così ci imbattiamo subito in un problema imperante, che già il profeta Isaia, al cap. 5, denuncia un grave delitto dinanzi a Dio e agli uomini, un delitto che deturpa la storia e altera la cifra della nostra vera umanità: “guai a chi chiama il bene male e il male bene”.

Ebbene è quello che va accadendo e l’alterazione della coscienza comune si fa sconvolgimento morale della coscienza sociale. La coscienza è sempre stata presentata come il baluardo della libertà di fronte alle limitazioni dell’esistenza imposte dall’autorità. Ma possiamo, oggi, dire la stessa cosa, o forse all’autorità si è sostituito un potere scomposto fatto di desideri, di ribellioni morali, di arbitri sociali, così che tutte le verità essenziali sull’uomo, lasciano il posto a verosimiglianze improbabili sull’uomo, in nome di un esistenzialismo sfrenato e innaturale?

È in crisi l’autorità. Vige il rifiuto di ogni autorità precostituita: familiare, ecclesiale, politica, avvertite come nemiche della libertà, delle libertà individuali, in nome della libertà di coscienza.

Se la “coscienza non è formata e informata dai principi derivanti dalla verità”, se perde il contatto con gli ideali superiori ecco che si fa erronea, confonde il bene con il male, giustifica il male comune un bene. Così la coscienza si fa incoscienza, con i rischi di deriva spirituale, umana e morale a cui tutti assistiamo.

Due giorni dopo la morte del servo di Dio don Luigi Sturzo, il 10 agosto 1959, in “Via aperta” venne pubblicato un articolo che il prete calatino aveva composto tre mesi prima. Così si esprimeva: “La colpa più grave degli individui e dei nuclei umani, nonché dei corpi costituiti, sarebbe quella di non avere fiducia di potere superare il male con il bene. Il che sarebbe indice della mancanza di fiducia nelle libertà, dono di Dio, e in Dio stesso il donatore di ogni bene”. E così concludeva: “Non mancheranno crisi presso gli Stati moderni, non mancheranno contrasti di interessi e di classi; non finiranno le difficoltà dei disoccupati e degli emigranti; vi saranno sempre fannulloni e parassiti, ma il valore di un popolo e il merito di un governo sarà quello di provvedere in tempo a formare quelle zone di solidarietà umana e cristiana dove si sentirà meglio il calore di una moralità derivante dalla carità cristiana.

La sfida, a distanza di oltre 50 anni, non mi pare che si possa dire vinta. La vita pubblica del nostro Paese risente i tristi effetti dell’egoismo umano. E l’egoismo, quando sotto gli strali del relativismo etico si fa egolatria, diviene scuola di indifferenza umana sino alla crudeltà.

Ma c’è anche un altro pericolo, addirittura peggiore da combattere, che interpella la comunità cristiana e in modo speciale il laicato organizzato che ogni giorno incrocia con le proprie pedagogie educative e rieducative centinaia di migliaia di persone. È il rischio dell’insensibilità del popolo stesso di fronte al dilagare dell’immoralità nell’amministrazione dello Stato.

L’immoralità pubblica non è caratterizzata solo dallo sperpero del denaro pubblico e dalla continua socializzazione dei debiti scriteriati di una certa economia politica. Applicare sistemi fiscali ingiusti o vessatori, specie per le famiglie, è immoralità; dare impieghi pubblici e privati a persone incompetenti è immoralità; abusare della propria influenza in un’amministrazione comunale, provinciale, regionale, così come nell’amministrazione della giustizia, o nell’assegnazione degli appalti, è immoralità. Cosa dire poi dell’immoralità privata: disordine familiare, tangenti, prostituzione, sfruttamento degli immigrati, senza tetto, senza cibo. La lista sarebbe lunga e nota.

Diciamocelo francamente: non si corregge l’immoralità con una predica domenicale o scrivendo articoli nei giornali. Bisogna correggere la vita pubblica; bisogna moralizzare la vita pubblica; bisogna immettere nella società una nuova generazione di uomini e donne con una forte passione, animata dalla carità cristiana, che si impegnino a ricercare il bene pubblico basato sulla morale, che sentano nella loro coscienza il primato l’impero della morale fecondato dall’amore per Dio e per gli uomini. Uomini e donne che abbiano una concezione religiosa della vita da cui deriva il senso della responsabilità morale  e della solidarietà sociale.

Sant’Agostino affermava che “se la fede non è pensata allora è nulla” (in De Praedestinatione sanctorum, 2,5). Quindi più che “ripensare” al passato, dobbiamo “pensare” il presente come uomini spirituali, cioè valutando la realtà come uomini – ricorderebbe S. Paolo –  che hanno “il pensiero di Cristo” (1 Cor 2, 16).



Il credente è il realista per eccellenza. Non si rifugia nostalgicamente nel passato, né invoca un futuro depressivo o repressivo. Il cristiano è colui che con S. Paolo ripete: «La realtà è Cristo» (Col 2, 17). La differenza la fa Cristo. Il dilemma è tutto qui. Se Cristo c’è o non c’è. Perché se Lui non c’è, allora anche io sono assente, insignificante, impotente. O la mia fede genera Cristo nella storia, o il mio essere laico nel mondo profumerà di morte e non di vita, non basterà a salvare la mia anima, figurarsi essere di aiuto per gli altri.



La nostra laicità parte dal reale, lo include, lo assume, aspira a trasfigurarlo. È una laicità aperta all’uomo perché già spalancata a Cristo. Se è chiusa la porta della nostra fede in Dio, sarà sigillata la porta della nostra fiducia nell’uomo. La misura della nostra laicità è insieme uno spazio antropologico e teologico inscindibili: l’uomo e Dio; ancor meglio l’uomo in Dio e Dio nell’uomo.



Questa Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II ha spalancato un nuovo e magnifico orizzonte ai laici, interpellati con coraggio e fiducia a non disertare la storia, invitati «a guardare in faccia questo nostro mondo» (n. 3).



La realtà si può guardare, giudicare, abbracciare in due modi: obbedendo allo spirito di questo mondo, oppure obbedendo allo Spirito di Dio. Da una parte le tenebre della menzogna, dell’inganno, della falsità; dall’altra la luce della verità, della sincerità, dell’onestà.



La nostra laicità è lo spazio creativo dell’amore, di un amore compassionevole per questo nostro mondo. La nostra laicità è la capacità interiore di vedere il bene che manca tra le pieghe del male evidente, delle strutture di peccato che colpevolmente stanno espatriando Dio dalla storia. Un Dio che, al massimo, si vorrebbe come “un al di là”, un Dio scomodo, troppo esigente per essere parte di questo nostro tempo ondivago. Cristo, invece, si è posto come Signore del “di qua” e a noi - per fede - chiede di governare con Lui questo nostro mondo.



Senza questa passione per Dio e per l’uomo, la politica è più sterile delle donne sterili. Genererà solo delusione e fughe. Essere laici cristiani significa vivere una vita paradossale, essere uomini di sofferenza che seppure segnati dalla condizione umana si sforzano di non deturpare la bellezza e di non attenuare la gioia che provengono dal Vangelo di Cristo, perché l’amore non è mai insignificante ed è sempre crocifiggente.



Il Papa Benedetto XVI è esplicito: la politica, in ogni ordinamento statale giusto, è servizio permanente d’amore. “Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo” afferma al n. 28 dell’Enciclica Deus Caritas Est.



È un giudizio lucido, laicissimo al contempo. La politica non è aliena dai valori dello spirito, altrimenti sarà un’osservazione epidermica della realtà, così che pensiero e azione mancheranno di un principio interiore, spirituale che le unifichi.





Una “nuova generazione di cattolici impegnati nella politica”



Proprio in occasione della XXIII Assemblea Plenaria dal Pontificio Consiglio per i Laici, dedicata alla rilettura della Christifideles laici, ricevendoci in Udienza privata (Città del Vaticano, 15 novembre 2008) Benedetto XVI ha affermato con la chiarezza espositiva che lo contraddistingue:



“Ribadisco la necessità e l’urgenza della formazione evangelica e dell’accompagnamento pastorale di una nuova generazione di cattolici impegnati nella politica, che siano coerenti con la fede professata, che abbiano rigore morale, capacità di giudizio culturale, competenza professionale e passione di servizio per il bene comune”.



Con queste parole il Pontefice ritornava sull’appello lanciato a Cagliari il 7 settembre 2008, indicando anche la pedagogia da seguire. Occorre porsi in questa sintonia e assecondare i passi proposti dal Pontefice per dare corso a questa sfida che ci attende. Un appello che lungo i tre anni fin qui trascorsi più volte è ritornato nei discorsi del Pontefice, più volte ripreso dal Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, card. Angelo Bagnasco.



“Formazione evangelica e accompagnamento pastorale”. Questi i due criteri metodologici e pedagogici con i quali dar corso a questo impellente impegno ecclesiale. Ma sono “cinque”, nel giudizio del Pontefice, le virtù, le caratteristiche da riscontrare o da determinare nei candidati, perché possa realizzarsi “il bene comune”:



·         “coerenti con la fede professata”, non con le proprie idee o con quelle – finanche buone e umane – conformi all’opinione pubblica;

·         “rigore morale”, perché è in atto una crisi antropologica tale da non poter più rinviare o minimizzare la gravità della “questione morale” anche tra i cattolici:

·         “capacità di giudizio culturale”, cioè discernimento, frutto di studio, di meditazione, di capacità di distinguere un bene personale dal bene comune;

·         “competenza professionale”, perché la politica è un’arte e non ci si improvvisa, specie quando non si possiede neanche un’attitudine o un’esperienza tecnica specifica;

·         “passione di servizio”, non per l’onore personale o la gratificazione di pochi.



Mi soffermerò sulle due prospettive che il Santo Padre riconosce “necessarie e urgenti”.

Intanto la formazione evangelica. Non si legga “formazione politica” di una nuova generazione di cattolici impegnati in politica, ma “formazione evangelica” di una nuova generazione di cattolici impegnati in politica. Quindi occorre ritornare al Vangelo. È il Vangelo, da duemila anni, la fonte di giovinezza del mondo, quindi anche della politica.



È il Vangelo la migliore scuola di laicità possibile per l’umanità, perché nessuno più di Gesù ha insegnato agli uomini l’arte di vivere, partendo dal posto più insignificante della geopolitica del tempo, una stalla di Nazareth, e occupando infine il posto più infame per la politica del tempo, cioè la croce, per dire con i fatti come si ama, come si sta dalla parte della gente fino a dare la vita per i propri nemici.



Utopia? Ma allora lasci perdere chi pensa di dirsi cristiano in politica. Non esiste altra via. Che tu voglia assimilarti al “cristianesimo dell’essere lievito” o al “cristianesimo dell’essere luce” non puoi sfuggire alla prova del Vangelo.



L’indimenticato Papa Giovanni Paolo II, con ferma lungimiranza sentenziava: “Non c’è soluzione alla questione sociale al di fuori del Vangelo” (in “Centesimus Annus”, 3).



Pertanto, è il Vangelo la migliore fonte possibile d’ispirazione politica, di formazione “alla politica”. Se la politica è la “più alta forma di carità”, come ci hanno insegnato i Pontefici dello scorso secolo, il secolo della Dottrina sociale della Chiesa, ebbene proprio dall’alto, dall’alto dei Cieli Dio è venuto nella nostra terra, si è fatto uomo per insegnarci come servire l’uomo, come onorare la sua dignità umana, come rendere il mondo in cui questo uomo abita più giusto, più solidale, più fraterno.



Con S. Paolo dovremmo fare del Vangelo il nostro vanto, perché niente di meglio, di buono, di vero, di divino possiamo trovare in nessuna altra scienza umana, teologica, sociologica, filosofica più del Vangelo di Gesù.



Urge tornare al Vangelo. Senza mezze misure, senza accomodamenti di senso e di prassi, senza vergogna di dirsi cristiani. Il Vangelo è passione, è sacrificio, è coerenza tra la fede che si professa e la vita che si conduce, “il cui distacco, sempre più evidente - già il Concilio nella Gaudium et Spes -  considerava uno dei più gravi errori del nostro tempo” (n. 43).



Il cristianesimo è una via da percorrere, una verità da annunciare, una vita da vivere. È tutto qui il contenuto pratico della nostra laicità, del nostro essere laici in questo mondo. La cifra della nostra laicità è Cristo. Non è un aggettivo, è una persona. Non è un ricordo, è pensiero dominante. Non è un insieme di teorie, ma di buone prassi.



Mai dimenticarlo: dal Vangelo nasce la Chiesa, il modello più efficiente di organizzazione, di management, di pianificazione strategica che la storia da duemila anni possa vantare: nessuna diplomazia è mai stata più longeva di quella fondata sul Vangelo. Chi sta dalla parte di Cristo non soccombe, resiste ai secoli. “Con Lui o contro di Lui – diceva il Manzoni – perché essere senza di Lui, come molti pensano di fare in nome della laicità, è già essere “contro di Lui” (in Osservazione sulla morale cattolica).



Urge un rinnovamento. Una seria, profonda stagione di rinnovamento che abbia un segno distintivo di svolta, un’espressione autentica di fede in un gesto alla portata di tutti: riprendere il Vangelo tra le mani. Rimetterlo nel cuore, nella testa, nella volontà. Quanto più si vorrebbe una vita ispirata al Vangelo di Gesù, una politica ispirata al Vangelo, tanto più è urgente riprendere il Vangelo tra le mani.



L’urgenza dice emergenza, come una casa che brucia o una città le cui fortificazioni sono assediate dal nemico. È bene, se qui si vuole immaginare uno scenario nuovo per una politica ispirata, disegnata, armonizzata con i principi fondamentali della nostra tradizione cristiana, occorre dire che il nemico della superbia, dell’egoismo autoreferenziale, dell’immoralità, dell’avidità del potere, dell’avarizia del denaro si sono felicemente accasati nei cuori di molti cristiani che non onorano Cristo con la loro vita.



Il Papa parla anche dell’urgenza dell’accompagnamento pastorale. È quella responsabilità ecclesiale che interpella in primis le Chiese locali, le parrocchie, i movimenti, le nuove comunità, le associazioni. Nel 1998 Giovanni Paolo II e nel 2006 Benedetto XVI hanno indicato nella Chiesa la coessenzialità del profilo gerarchico e di quello carismatico; e hanno chiamato noi leaders di movimenti cattolici ha vivere la corresponsabilità pastorale con il ministero petrino, promuovendo scuole di vita cristiana che formassero alla preghiera, alla comunione, alla libertà, alla missione.



È urgente ridare vita a questo “accompagnamento pastorale”, ad uno stile di vita ecclesiale più fraterno, partecipativo, spirituale, carismatico. È un fatto che con il tramonto della Democrazia Cristiana la formazione non sia più di casa in politica. Si può ripartire? Sì, ma urge ritessere i fili di una fiducia ecclesiale, di un discernimento ecclesiale che riveda più vicine e dialoganti la gerarchia e il laicato, specie quello associato, nella difesa e nella promozione della laicità cristiana del nostro Paese, senza clericalizzazioni del laicato o laicizzazioni del clero.



Insieme, dobbiamo ri-formare e rinnovare la nostra coscienza sociale fondata sulle verità evangeliche. Insieme, e in modo esigente, dobbiamo esplicitare il contenuto morale della nostra fede quando parliamo di bene comune ed essere esigenti con chi si dice “cristiano in politica”.



Occorre ritrovare l’umiltà di ripartire dal basso, di chiedere aiuto, di lavorare insieme alla nostra gente – non alle spalle – di stare sul territorio, di partire dal territorio, di lavorare nel territorio senza “ambizioni romane”, mostrando proprio nelle nostre comunità locali la bellezza e la forza della comunità ecclesiale. Altro che divisi, minoritari e marginali. Abbiamo ancora numeri da fare spavento e piangiamo sempre miseria offendendo la grazia di Dio che ci ha fatto oggetto di ogni dono di grazia, materiale e spirituale.



Nessuno può più tirarsi indietro. Il regno di Dio deve avanzare, non essere lacerato da inutili rancori autoreferenziali che ancora serpeggiano nel mondo cattolico, né arroccarsi su posizioni ideali che la storia ha già superato, retaggi del passato che non interessano alle nuove generazioni e che paralizzano l’avanzare del nuovo anche in politica.



Nessuno si faccia illusioni se si vuole che i movimenti, le comunità, siano lo spazio del discernimento, della formazione, della maturazione di nuove vocazioni, di nuovi carismi da offrire all’impegno politico.





            Epilogo



Vorrei concludere con un’immagine, come ci viene raccontata dall’evangelista Giovanni: Gesù che incontra Nicodemo (in Gv 3, 1-21). È l’umiltà della natura umana (Nicodemo) che incontra la potenza della natura divina (Gesù). Nicodemo, un anziano rabbino, incontra Gesù, un giovane rabbino, convinto che dietro quella potente parola accreditata da segni e miracoli si nasconda qualcosa di più di un semplice maestro. “Cosa devo fare?”, chiederà Nicodemo a Gesù. Nicodemo è deciso a mandare in crisi le sue certezze. Invoca una nuova vita. E Gesù non lo delude. “Fai la verità e così rinascerai.. Perché ciò che è nato dalla carne è carne, ma ciò che è nato dallo Spirito è Spirito. Opera la verità e verrai alla luce, perché appaia chiaramente che le tue opere sono state fatte in Dio”.



Il miracolo di una vita nuova, di una politica nuova, di un Paese nuovo non risiede nelle nostre forze umane, ma nella forza dello Spirito Santo, perché appaia chiaramente che è opera sua, proprio attraverso le nostre debolezze e infermità. Se questa opera è stata fatta in Dio e obbedirà allo Spirito di verità e allora non solo farà venire alla luce qualcosa di nuovo, ma darà vita a qualcosa che rimarrà.






Chi sono

Qualcuno, di cui non ho molta stima, mi chiama "Architetto di Dio". La cosa, però, mi piace. Dicono che sono un architetto eclettico ed un pò anomalo. Il mio lavoro è a metà tra i restauri ed il turismo. Sono cooperatore salesiano e amo Don Bosco. Sono sposato con Cinzia che amo. Abbiamo tre figli, Gabriele Samuele e Gaia. Se vuoi scrivermi ecco la mail architettodidio@gmail.com


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"Il senso di inquietudine mi insegue sempre e quando mi pare di aver colto una certezza ricado nell'assoluto smarrimento. Mi chiedo: sono al posto giusto, al momento giusto? Boh! che casino è la VITA e quanto doloroso è questo cammino di scoperta dell'Assoluto che c'è in noi!"

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